Ritratti

Walter Bonatti, 30 anni di viaggi nei suoi grandiosi “autoritratti ambientati”

Le immagini con le quali il più grande alpinista italiano ha riempito i suoi ricordi e il suo cuore sono diventate una mostra che resterà a Milano fino all'8 marzo: la bellezza della natura, l'intensità della solitudine, il piacere della compagnia di se stessi, che a volte non nasce per caso. Ma dal tradimento di chi ti sta vicino

Cosa c’è al centro della vita? Dov’è che si sente il cuore tornare a battere, l’aria di nuovo dentro i polmoni, il silenzio interrompere il fruscio delle foglie, il corpo e la mente tornare a parlarsi, l’amore assumere davvero un senso? Dov’è possibile togliere insensatezza alle risposte sull’essere nel mondo? Dove sono, insomma, tutti i colori dell’anima, se non sulla testa del mondo e lungo la sua spina dorsale? Per dare una sbirciatina a tutto questo c’è a disposizione il diario di viaggio del più grande alpinista italiano, l’ultimo esploratore, il re delle Alpi. Le immagini con le quali Walter Bonatti ha riempito i suoi ricordi e il suo cuore, prima di finire il suo viaggio, sono diventate una mostra che resterà al Palazzo della Regione Fotografia di Milano fino all’8 marzo.

La destinazione è il viaggio stesso: le montagne più alte, i deserti e le foreste, vulcani e ghiacciai, l’acqua fresca dei ruscelli e la potenza degli oceani. In oltre 30 anni di viaggi Bonatti ha portato il mondo, con i suoi racconti e la sua macchina fotografica, in un’Italia in cui non c’erano immagini in alta definizione, documentari sui monitor, google earth. E ancora oggi non basta una fotogallery di un giornale a occupare lo stesso posto. “Il mestiere di fotografo per grandi riviste italiane, soprattutto per Epoca, lo portò a cercare di trasmettere la conoscenza di luoghi estremi del nostro pianeta – spiegano gli organizzatori – Al tempo stesso, non smise mai di battersi con forza per tramandare la vera storia, troppe volte nascosta, della conquista del K2 e del tradimento dei compagni di spedizione. Molte tra le sue folgoranti immagini sono grandiosi ‘autoritratti ambientati‘ e i paesaggi in cui si muove sono insieme luoghi di contemplazione di scoperta. Bonatti si pone davanti e dietro l’obiettivo: in un modo del tutto originale è in grado di rappresentare la sua fatica e la gioia per una scoperta, ma al tempo stesso sa cogliere le geometrie e le vastità degli orizzonti che va esplorando”.

Viaggiare dentro la natura insegna a vivere, sfidarla rende vivi. La storia leggendaria di Bonatti è cominciata quando lui aveva 19 anni e scalava le montagne della Lombardia nel fine settimana, dopo aver lavorato alla Falck. “Ero in reparto in attesa di passare contabile – raccontò una volta al Corriere della Sera – Mi sembrava umiliante. Ma non perchè era una manovalanza pesantissima. Da una parte avevo la natura, avevo la libertà. Dall’altra la costrizione senza limiti di una società che mi offriva solo delusioni e massacri“. Dormiva sul balcone per abituarsi al freddo, la domenica prendeva il treno all’alba e scalava fino alla sera. Il lunedì ricominciava. “Quando mi han passato agli uffici ho capito che dovevo tagliare i ponti – continuava il suo racconto – Per la gente ero un lazzarone che non aveva voglia di lavorare. Dicevano: ma sei matto? Lasci un posto alla Falck? Io il posto ce l’avevo già. Tutto quello che si fa nella vita è un gioco. Ma le regole vanno rispettate, altrimenti non hai riferimenti, non puoi misurarti nel bene e nel male. Non sei nessuno neanche per te stesso”.

La bellezza della natura, l’intensità della solitudine, il piacere della compagnia di se stessi, che a volte non nasce per caso. Il nome di Bonatti, suo malgrado, è legato infatti a un’impresa che per anni – decenni – è stata logorata, spezzettata, sfumata, velata, quasi nascosta. Nella spedizione sul K2, nel 1954, lui ha 24 anni. Manca un giorno e i suoi due compagni italiani, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, raggiungeranno la vetta della seconda montagna più alta del mondo. Bonatti scende dall’ottavo al settimo campo per recuperare le bombole d’ossigeno. Risale, insieme ad un altro compagno, Amir Mahdi, ma i compagni italiani non sono più dove previsto, ma 250 metri più in alto. Bonatti è costretto a dormire all’addiaccio a temperature fino a meno 50 gradi senza tende né sacchi a pelo. “Hanno avuto paura che fossi più forte di loro – raccontò sempre al Corriere – Mi hanno abbandonato sulla montagna senza niente da mangiare, niente da coprirmi. Fossi arrivato alla tenda del nono campo con quello che avevo fatto, uno di loro doveva cedermi il passo. Adesso si fanno delle cure preventive, si può resistere a 8mila metri. Ma nel 1954 senza ossigeno si moriva. Io mi sono rifiutato. Sembra retorica ma è così. Mi sbattevo, contavo le dita, dovevo stare sempre vigile. Ce l’ho fatta, ma il carattere è cambiato totalmente. Verso la montagna non avevo nessun rancore. Ce l’avevo verso gli uomini. Mi sono chiuso in me stesso, sono diventato diffidente. Era l’orecchia in un libro, una cosa che non si cancella più. Ma era anche la mia regola“. Al tradimento si aggiunse l’oblio, l’omertà. Solo oltre 50 anni dopo la versione ufficiale e le ricostruzioni furono finalmente aderenti alla verità.

Quando c’è di mezzo la natura e l’uomo che ci si misura, ogni ora diventa una sceneggiatura mai scritta. Dopo aver camminato nei cieli di tutto il mondo Bonatti tornerà anche a arrampicarsi in gruppo, supererà altri drammi e altre tragedie, come i 4 compagni morti nel 1961 durante la scalata al pilone centrale del Freney (che fa parte del gruppo del Monte Bianco). Finisce la prima parte della sua vita con un’altra impresa che rovescia le regole del mondo: apre in cinque giorni una via nuova in solitaria invernale sulla parete nord del Cervino. Non c’era mai riuscito nessuno. Il Quirinale gli conferisce la medaglia d’oro al valore atletico.

E’ a quel punto, a 35 anni, che comincia la seconda delle vite di Walter Bonatti. Sposta il suo cammino da verticale a orizzontale. Non va più solo su, ma anche lontano. Vuole la natura addosso, studia il comportamento degli animali e nel frattempo collabora per quasi 15 anni con Epoca (eccole le foto). Calpesta migliaia e migliaia di chilometri, attraversa l’Africa, sale sul Kilimangiaro), Uganda. Va in America del Sud, cerca le sorgenti del Rio delle Amazzoni, va a Sumatra e poi nelle isole Marchesi – nella Polinesia francese – e prova a verificare un racconto di Melville, quello di Moby Dick, rimasto prigioniero di cannibali. Capo Horn, Australia, Laguna di San Rafael in Cile, quante volte la Patagonia, ancora Africa, Antartide. “Non mi sento di avere 80 anni – aveva detto all’Ansa nel 2000 – Se penso all’intensità con la quale ho vissuto, credo di averne 200, per il resto mi sento come un quarantenne”.