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#Opentosyria: le storie sconosciute dei rifugiati siriani

opentosyria (2)La guerra della Siria, alla vigilia del suo quarto anno, ha causato oltre 200.000 morti e costretto oltre 11 milioni di persone ad abbandonare le loro case. Circa 7,6 milioni sono profughi interni, altri quattro milioni hanno lasciato il paese.

Circa il 95 per cento dei rifugiati siriani, ovvero 3.800.000 persone, è ospitato nei cinque principali paesi della regione: Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto. L’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha identificato 380.000 di essi come bisognosi di reinsediamento, tra cui sopravvissuti alla tortura e allo stupro, vedove, bambini ammalati e minori non accompagnati. Finora, tuttavia, i paesi più ricchi del mondo hanno offerto solo 79.180 reinsediamenti, un quinto del necessario. Una miseria.

Un nuovo rapporto di Amnesty International racconta otto storie di persone e famiglie fuggite dal conflitto e che stanno cercando di sopravvivere in Libano, Giordania e Iraq. Molte di loro vivono l’inferno, sopportano disagi infiniti e lottano ogni giorno per sopravvivere nella loro condizione di rifugiati. Il reinsediamento potrebbe offrire loro una prospettiva di vita che si è fatta indispensabile, un barlume di speranza in un futuro migliore. Potrebbe cambiare le cose.

Yara ha 23 anni e quattro figli. Uno di loro, Mutanama, ha una lesione alla spina dorsale che causa la fuoriuscita di fluido nel cervello. Da quando la famiglia è fuggita in Libano, le sue condizioni sono peggiorate. Da un video postato su YouTube, Yara ha scoperto che suo marito, che era stato arrestato in Siria, è stato ucciso. La sua condizione di donna vedova rifugiata l’ha resa vulnerabile alle molestie sessuali e non le permette di pagare gli elevati costi dell’affitto di un’abitazione.

“Per me che sono rifugiata, ogni cosa presenta difficoltà. C’è in giro tanta gente cattiva che mi dice cose orribili e mi molesta. È una vita difficile, non ce la faccio ad andare avanti”.

Un’altra famiglia siriana, rifugiata in un campo della regione del Kurdistan iracheno, sta cercando di ottenere cure mediche per il piccolo Elias, 12 anni, cui nel 2012 è stato diagnosticato un tumore.

“La vita è molto difficile qui perché abbiamo bisogno di dottori e medicinali. È difficilissimo trovare le cure per lui
” – ha raccontato il padre di Elias, Maher, che spera disperatamente di essere reinsediato in Europa, dove potrebbe trovare cure mediche adeguate per suo figlio.

Hamood, un giovane gay di Dera’a, la città della Siria meridionale dove nel 2011 iniziò la rivolta, vive ora in Giordania, dove subisce quotidianamente minacce e molestie. Ha raccontato ad Amnesty International che suo fratello ha tentato di ucciderlo e che è stato stuprato da sei uomini. Vorrebbe tornare in patria ma “in Siria c’è solo la morte”. Spera nel reinsediamento in Europa, dove potrebbe vivere in maniera aperta il suo orientamento sessuale, trovare un lavoro e innamorarsi. Insomma, nascere una seconda volta.

Jamal e Said sono una coppia gay di giornalisti e attivisti politici che hanno conosciuto il carcere in Siria. Jamal è sieropositivo. La sua salute è peggiorata rapidamente nell’isolamento della prigione, senza cure mediche. In Libano, queste sono enormemente costose, a tal punto che quando l’ha scoperto ha tentato il suicidio. Entrambi gli uomini sentono che la loro vita in Libano è a un punto fermo. Vorrebbero disperatamente ricominciare, completare gli studi e trovare un lavoro.

Qasim, un rifugiato palestinese, è dovuto fuggire dalla Siria dopo che la sua abitazione era stata distrutta in un bombardamento. Lui e sua figlia soffrono di elefantiasi e non riescono a trovare cure mediche adeguate. Cerca in tutti i modi di far sì che sua figlia sia curata.

“Per quanto mi riguarda, aspetto di morire. Non m’interessa se curano me, voglio che curino mia figlia” – ha raccontato ad Amnesty International.

Oltre a permettere ai rifugiati di ricostruire la loro vita in pace e in stabilità e ad avere accesso alle cure mediche e al sostegno di cui hanno bisogno, il reinsediamento potrebbe contribuire a redistribuire le responsabilità per questa crisi dei rifugiati di proporzioni storiche.

Inutile dire che i costi per reinsediare queste persone sarebbero infinitamente inferiori a quelli sostenuti dalla comunità internazionale per finanziare e armare i responsabili della loro sofferenza.