Società

Charlie Hebdo, che cosa abbiamo fatto noi per evitare di diffondere la violenza?

Guardando le immagini della sfilata parigina – dicono – di oltre due milioni di persone, chissà perché, mi è venuto in mente un corollario del notissimo teorema di Coase, che più o meno recita così: «un gruppo ristretto, ma coeso, in termini di conseguimento dei propri obiettivi, è sempre più efficiente di un gruppo più numeroso, ma meno coeso». In altre parole, mentre scorreva quel fiume di persone capitanate dai potenti della terra, non ho percepito affatto il senso della nostra forza, della nostra bravura o della nostra superiorità, ma delle nostre debolezze, delle nostre contraddizioni, della nostra (per il momento) incapacità, non dico a risolvere il problema, ma ad incamminarci sulla strada di un miglioramento.

Ho fissa nella mia memoria, la volta in cui – con tutte le prevenzioni del caso – andai a ricevere all’aeroporto un collega, raffinato e modernissimo filosofo dell’Istituto Khomeini di Qom, certo che nei giorni che avrebbe trascorso da noi sarei riuscito a fargli comprendere non solo la bellezza della nostra cultura, ma soprattutto la nostra capacità di esprimere libertà, tolleranza e (perché no?) solidità, anche di fronte alle molte contraddizioni della vita.
Ma fu subito un disastro. Appena fuori dall’aeroporto campeggiava e incombeva, a icona e biglietto di presentazione tipo «Benvenuti in Occidente», una struttura pubblicitaria alta almeno 4 piani, dalla quale uscivano solo i metri quadri di pelle di una giovane donna, che con l’intento di mostrare la biancheria intima che pubblicizzava, in realtà lasciava ben poco all’immaginazione e ipso facto stava distruggendo tutte le mie certezze, facendo – comicamente – rimpiangere il chador. Questa è l’immagine alternativa della donna che vogliamo offrire in risposta ai loro tentativi di mantenerle in posizione subalterna in nome dell’Islam? Questa è la nostra cultura di genere?

In altre parole, c’è un serio problema di cultura, creato e alimentato da quelli (e sono molti) che nel mondo occidentale credono che «con la cultura non si campi». A questi signori, brutalmente, vorrei dire che gli assassini di Charlie sono solo la mano, forse le dita. Ma la testa e la causa di questi crimini, del terrore che incomincia a diffondersi in Europa è stata prodotta da quanti hanno pensato che tutto si potesse risolvere solo con il denaro. Hanno voluto semplificare e ridurre i rapporti umani e sociali a rapporti di forza – i soldi, le armi – e noi abbiamo accettato questa impostazione. E oggi si lamentano che le contese, invece che con un bel dibattito Averroé-Abelardo, si risolvano a suon di bombe e di attentati. E nel frattempo ci hanno lasciato senza armi vere, non i missili intelligenti, ma la cultura e le convinzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali sulle quali si è da sempre fondata la società e che solo ci consentono di fermare la violenza altrui.

Prendiamo la libertà – quella liberté che in questi giorni mai così impropriamente è stata sbandierata. Di quella specie particolare che è la libertà di stampa taceremo, perché altri hanno già chiarito, che è un valore che andrebbe difeso tutti i giorni, per poter essere applicato anche in casi estremi come questo e dalle nostre parti sta sotto terra. Ma la libertà di offendere non è mai libertà e noi dovremmo avere il coraggio di dichiararlo forte e chiaro, anche in momenti così tragici. Noi non vogliamo essere offesi, ma non possiamo ridurre la nostra libertà al diritto di offendere gli altri, di ignorare deliberatamente i loro sentimenti. Al contrario la libertà è qualcosa di molto più faticoso e – ovviamente – molto meno praticato, in Italia come nel resto d’Europa.

La libertà è essenzialmente ciò che consente a tutti i cittadini di poter conseguire gli stessi risultati, nel rispetto delle leggi e delle norme. Libertà è pari opportunità. Libertà è conoscenza e leggi. Scuole e giustizia. Parliamo dell’Italia, che è la realtà che conosciamo meglio, ma anche nel resto d’Europa non si scherza. Più che la libertà, è evidente che anche i capi di Stato che hanno sfilato per testimoniare la loro opposizione alla violenza, hanno voluto affermare sé stessi, perché in realtà sono divisi su tutto e torneranno presto a cercare di danneggiarsi reciprocamente in nome di diritti particolari e indicibili, sempre in contrasto con l’interesse collettivo. In realtà è stata una sfilata virtuale.

Da un punto di vista pratico poi la situazione è ancor più intricata, che non su un piano dei principi. Basti pensare al fatto che l’Islam non ha, al contrario, ad esempio, della Chiesa Cattolica, un’autorità universalmente riconosciuta – che possa contribuire a tenere disciplinate le sue fila anche più scalmanate – e questo certamente non aiuta il confronto. Tuttavia la complessità della realtà non cambia i termini del problema. Nonostante quello che pensano gli speculatori con il denaro altrui, gli affaristi di breve respiro e i ragionieri dei fallimenti è solo con la cultura che fermeremo la violenza, che eviteremo altri bagni di sangue. Riflettendo sui nostri valori, facendo autocritica se necessario, studiando e sviluppando modelli più avanzati e più condivisi. Non certamente pensando a cambiare o a modificare, a «migliorare», le consuetudini altrui. Non alzando barriere o dichiarando guerre. Semplicemente guardando al nostro orto, partendo magari dalla domanda: ma che cosa abbiamo fatto noi per evitare che la cultura della violenza si diffondesse nel mondo?