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L’Islam in Cina tra business e minaccia

Gli Hui si considerano i discendenti dei mercanti, soldati e scienziati arabi e persiani stabilitisi in Cina nel X secolo e, in numero anche maggiore, nel XIII, sulla scia delle truppe mongole di Gengis Khan. Si tratta di una popolazione particolarmente turbolenta che ha dimostrato durante tutto l’arco della sua storia una tendenza a mobilitarsi e ribellarsi al potere imperiale. Essi sono sparpagliati in tutta la Cina, ma sono raggruppati in comunità più compatte nella regione autonoma di Ningxia Hui (nord-ovest), nel Gansu (nord-ovest), nel Henan (centro-est), e nello Yunnan (estremo sud).

Le realtà islamiche presenti in Cina risalgono agli albori dell’Islam, quando lo zio del profeta Maometto, Saad ibn Abi Waqqas, fu accolto dall’imperatore Gaozong della dinastia Tang, durante il regno del terzo califfo Uthman nel 651. A questi anni si fa risalire anche l’edificazione della prima moschea cinese a Canton e l’introduzione dell’Islam per opera di mercanti arabi e persiani, giunti nel Paese attraverso la Via della Seta.

L’islam in Cina è un insieme composito, aperto alle grandi correnti musulmane nel mondo. Pur essendo in maggioranza sunnita di rito hanefita, non ha caratteri di omogeneità e di unità. Si possono però individuare come componenti dell’Islam, nella zona nord-occidentale della Cina, tre grandi correnti religiose (gedimu, ihuan, wahabita). I musulmani in Cina, dediti prevalentemente all’agricoltura e alla pastorizia, vivono in regioni povere e piuttosto isolate. L’attuale politica di sviluppo di queste zone non ha ancora prodotto un effettivo decollo economico. Nella Repubblica Popolare, anche l’Islam diventa business.

Nel Ningxia si è tenuta la prima “Conferenza degli imprenditori Hui” e periodicamente vengono organizzate “Sagre del cibo musulmano”. Il sogno degli imprenditori del Ningxia è di conquistare con le proprie merci i mercati che soddisfano le esigenze dei musulmani di tutto il mondo. E le fiere internazionali sono un modo per raggiungere questo obiettivo con il beneplacito delle autorità. Ma di fronte a tutto ciò c’è anche una minaccia che preoccupa la Cina, quella dell’Islam fondamentalista che rischia di legarsi a gruppi di matrice terroristica. “Allahu Akbar” l’hanno gridato alcuni giovani cinesi uiguri (Weiwu’erzu) per le strade di Urumqi.

Il Xinjiang è stato sempre una spina nel fianco di Pechino. Dal 1911 al 1949 vi è stato perfino il tentativo di dichiarare una Repubblica indipendente del “Turkestan orientale”. Questo nome è rimasto ai gruppi uiguri che combattono per l’indipendenza dalla Cina (Movimento Islamico del Turkestan Orientale), e che in passato hanno eseguito attentati contro sedi del partito, a bus e discoteche in città come Urumqi, Wuhan e Pechino, facendo decine di morti.

Dai vicini Kirghizistan e Uzbekistan giungono nel Xinjiang pericolosi predicatori del fondamentalismo e soprattutto armi per la rivolta nazionalista. Anche lo sviluppo economico e l’invito aperto a ditte straniere a giungere nel Xinjiang sta divenendo un’arma pericolosa. Grazie infatti ai diversi rapporti economici, i musulmani uiguri riescono a mettersi in contatto con altri musulmani della Turchia, del Pakistan o dell’Afghanistan per via del territorio molto esteso e per via dei controlli spesso eludibili. Un fenomeno che preoccupa le autorità di Pechino e che alimenta le speranze delle cellule terroristiche di impadronirsi di altre regioni per estendere i precetti fondamentalisti dei padri ispiratori del jihad globale.