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Medio Oriente: la salute israeliana di Hamas e Abu Mazen

In questo periodo, cioè dopo la caduta del governo di Netanyahu e prima delle elezioni di marzo, che speriamo faranno nascere un governo che avrà come primo traguardo la trattativa di pace con i palestinesi, è utile ricordare che dietro la retorica piena di astio e di conflittualità che israeliani e palestinesi si sono vicendevolmente lanciati, esiste un’altra realtà più umana, che può essere un esempio di un buon vicinato fra questi due popoli e i loro leader.

Mi riferisco alle cure mediche che sono state date alla famiglia di Ismail Anja, il leader di Hamas-Gaza, il nemico dichiarato dello stato ebraico, presso l’ospedale Ichilov di Tel Aviv. In giugno – un po’ prima della guerra estiva fra l’organizzazione islamica che presiede Anja – sua figlia è stata lì ricoverata, e in ottobre – subito dopo la guerra – anche sua nipote e sua suocera. Fonti dell’ospedale hanno confermato i fatti aggiungendo che i membri della famiglia del leader di Hamas fanno parte di oltre mille pazienti, vecchi e bambini, che ogni anno arrivano da Gaza e dai Territori per ricevere le cure mediche presso quell’ospedale.

Pare che Ismail Anja e la sua famiglia non siano stati gli unici leader palestinesi a rivolgersi alla sanità israeliana nel mese di giugno. La moglie del presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, la signora Um Mazen, è stata per ventiquattr’ore all’ospedale privato Assuta a Tel Aviv per un intervento chirurgico. Un dettaglio importante su questo fatto rende alquanto ridicola la retorica affrettata e stereotipata sui rapporti tra israeliani e palestinesi. La signora Abu Mazen è arrivata in quell’ospedale poche ore dopo che i tre studenti israeliani erano stati rapiti e poi uccisi da Hamas.

Negli ultimi due anni oltre settecento cittadini siriani, la maggior parte feriti nella guerra civile siriana, sono stati curati negli ospedali israeliani del nord del Paese, nelle città di Zfat, Haifa, Naharia e Tiberiade. Nel caso che il paziente fosse un bambino o ragazzo, gli ospedali israeliani permettevano la presenza di un familiare del giovane.

Hamas e Jihad islamico impiegano da anni una retorica nella quale Israele viene descritta come un demonio, uno Stato crudele che non ha pietà per i suoi vicini. Suppongo che se Anja stesso, i suoi familiari, i suoi colleghi, o Abu Mazen e i suoi collaboratori, credevano a questa loro stessa retorica, non avrebbero osato mandare i loro cari alle cure dei “crudeli ospedali sionisti” di Tel Aviv (le virgolette non sono una citazione ma una imitazione della vuota retorica impiegata dai portavoce dell’estremismo musulmano palestinese). L’hanno fatto perché erano sicuri che nessuno in Israele avrebbe nuociuto i loro familiari, rapito i loro nipoti o avvelenato le mogli o le suocere.

Questi fatti, riguardanti casi privati, ci insegnano che è possibile un altro rapporto fra palestinesi e israeliani. Lo Stato ebraico può essere una fonte di grande aiuto per lo stato palestinese che prima o poi nascerà accanto, certamente in campi come la sanità, la tecnologia e l’agricoltura. Spero che quando il Medio Oriente avrà come realtà quotidiana due Stati uno accanto all’altro, ci sarà chi si ricorderà che anche in tempi di violenza, odio, guerra i leader di Hamas e dell’Autorità Palestinese si erano rivolti agli ospedali israeliani per il bene dei loro cari.