Cucina

Andrea Aprea e la cucina stellata: “Prima di diventare chef, bisogna essere cuochi”

Il deus ex machina del ristorante Vun di Milano ha origini campane anche se preferisce definirsi semplicemente italiano, anche in cucina: "A me piace definire la cucina italiana, uscendo dallo schema regionale"

Lo chef del ristorante Vun di Milano non nasconde la verità che sta dietro la cucina stellata: “Con il cliente abbiamo solo due chance: il gusto e l’impatto visivo del nostro piatto, perché in cucina si mangia anche con gli occhi”. Andrea Aprea, classe 1977 è napoletano d’origine, anche se lui si definisce semplicemente italiano. Come la sua cucina. Alle spalle una gavetta importante che spazia dall’Inghilterra al sud est asiatico, fino ad arrivare in Italia, dove gira tra Firenze, lago di Garda e Milano. Nella sua Campania si ferma per poco: per due anni a Ravello, al Rossellinis a Palazzo Sasso e per tre anni al Ristorante Comandante dell’Hotel Romeo. Ora è lo chef del Ristorante Vun al Park Hyatt di Milano.

Andrea Aprea, la sua famiglia lavorava nel settore della ristorazione?
Sì, ma a livello molto più semplice.

Quindi l’ambizione dell’alta cucina appartiene solo a lei.
Sì, la mia è una passione viscerale per la cucina. Il mio sogno era diventare cuoco, quando ancora questa professione era diversa.

Come è cambiata la figura del cuoco oggi?
Prima fare il cuoco era quasi denigrante, oggi invece chi fa il mio mestiere si trasforma in una star. Con l’avvento della tv è tutto cambiato.

C’è troppo clamore intorno ai nuovi format tv che parlano di cucina?
Io dico che il giusto sta nel mezzo. Chi fa televisione è giusto che la faccia, perché dà visibilità al nostro mondo. I giovani però non devono percepire il nostro lavoro in maniera sbagliata. Ancora oggi per arrivare ad alti livelli la gavetta va fatta. Io credo però che nella tv non ci sia nulla di sbagliato, sta all’intelligenza delle nuove generazioni capire che la realtà della cucina è diversa.

Cosa dice ai ragazzi che vengono da lei a chiederle consigli?
Che è necessario fare tanti sacrifici. Come diciamo noi a Napoli “nessuno nasce imparato”. Non bisogna perdere la percezione di quello che è poi la realtà.

Quando ha capito che sarebbe diventato chef?
Prima di tutto volevo diventare cuoco, solo in seguito sono diventato chef. Oggi spesso il problema è che si vuole fare lo chef trapassando il fatto che prima devi fare prima il cuoco.

Quando ha capito che il suo destino sarebbe stato in cucina?
Appena ho messo le mani sulle padelle. Ho iniziato ad andare a scuola, a lavorare e pian piano ho iniziato a capire che quello sarebbe stato il mio lavoro. Le passioni vanno coltivate, pochissimi nascono con l’orecchio assoluto di Beethoven e Mozart  o con il piede di Maradona e Pelè, eppure di musicisti e calciatori ce ne sono migliaia.

Insomma, di Ferran Adrià ne nasce uno.
Esatto, tutto dipende dall’approccio che hai. Io non sono un genio, sono semplicemente appassionato del mio lavoro e cerco di fare tutto al massimo.

Che cosa vuol dire “cucina” nel 2014?
Vuol dire chimica, fisica e non parlo di cucina molecolare, che per me esiste e non esiste. Io credo che oggi come oggi sia la tecnica ad essere al servizio del cuoco. L’ago della bilancia di uno chef è il proprio palato. Se un piatto non mi piace, come faccio a proportelo?

Com’è la sua cucina?
Italiana in chiave contemporanea. Nei miei piatti metto ricordi, sapori, estetica, attenzione alle cotture. Questi elementi sono la chiave vincente per far capire che la mia è una cucina italiana.

Lei ha origini napoletane. Quanto di partenopeo c’è in ogni piatto?
A me piace partire dal concetto che siamo italiani. Dico sempre che siamo un Paese troppo “lungo”, dove le regioni più a nord sono diversissime da quelle più a sud. Io preferisco definire la cucina italiana, uscendo dallo schema regionale. Poi ovviamente, nel mio menù ci sono i “percorsi partenopei” oppure “viaggiando tra nord e sud”.

La sua “Caprese…dolce salato” è 100% Campania…
Sì, è mozzarella e pomodoro, un boccone di Campania. Molti mi dicono che ho inventato la “Caprese…dolce salato”, ma non è così. Io ho semplicemente reinterpretato quello che il patrimonio gastronomico nazionale già ci offre.

Ma come è nata l’idea della sfera?
Volevo creare un contenitore per il gusto della mia caprese. Ho provato con l’azoto, la meringa e i palloncini. Ma non riuscivo ancora ad ottenere quella idea di manualità tipica della mozzatura della mozzarella. Così abbiamo iniziato a lavorare sullo zucchero come con il vetro di murano e ho trovato quello che stavo cercando da tempo.

Quanto è importante per lei la reazione del cliente nel momento in cui gli viene consegnato il piatto?
E’ fondamentale. Oggi sono due le cose importanti: l’ impatto visivo, dato che la cucina è un’arte commestibile che si mangia con gli occhi, e il gusto che dev’essere altrettanto ottimo. Hai solo queste due chance.