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Morto Antonio Sibilia, il suo calcio illuse l’Irpinia terremotata

‘O commendatore, che aveva le mani spesse di un manovale di provincia, un tipo ruvido che aveva patito la fame prima di conoscere la fama e il profitto col cemento, si faceva accompagnare fin sotto la tribuna centrale dello stadio Partenio di Avellino, non scendeva mai subito, aspettava un paio di minuti, aspettava che il solerte autista gli aprisse la portiera. A volte cambiava modello di Mercedes, non la tradizionale passerella: cappotto piuttosto lungo di lana, cappello Borsalino con le falde ampie. Allora la partita poteva cominciare. Quella di Antonio Sibilia, per oltre un quarto di secolo padrone del calcio irpino, è finita ieri mattina, a 94 anni non compiuti per pochi giorni, a Mercogliano, sotto il Santuario di Montevergine, luogo di obbligata devozione per i calciatori biancoverdi. Sibilia è il patron, non il presidente, di un Avellino che per 10 anni ha giocato in Serie A; la provincia che ballava intorno alla bandierina assieme al brasiliano Juary. Lo stesso furetto, bidone all’Inter di Fraizzoli e campione d’Europa al Porto, che Sibilia prelevò dal campo di allenamento per rendere omaggio in Tribunale al boss Raffaele Cutolo, capo della nuova camorra organizzata. Juary consegnò a don Raffaele una medaglia d’oro di 70 grammi con sovrimpresso un lupo.

Sibilia fu arrestato, processato e poi assolto. Fu il padre severo di Beniamino Vignola, che prese a schiaffi; Stefano Tacconi, odiato per il cospicuo ingaggio; Luciano Favero e Nando De Napoli, irpino di montagna. Quando l’Avellino dei gregari pareggiò 3-3 in rimonta a Torino contro la Juventus, ultima giornata del campionato ‘ 78/’79, sugli spalti c’erano Ciriaco De Mita, Nicola Mancino e Giuseppe Gargani. Il secondo tempo di una Prima Repubblica. Poi venne il terremoto, e lo stupore dei giocatori: al Partenio non c’era più l’erba a ciuffi, ma un groviglio di tende per gli sfollati. E faceva freddo, quel novembre 1980. Nei paesini sperduti, lì dove i soccorsi tardarono giorni, non c’era più nulla. I centri abitati furono trasferiti a valle. E pure il dolore degli irpini fu trasferito, sotterrato dal clientelismo, un po ’ alleviato da questa squadra di giovani gracili e sbarbati – e poi Sibilia non tollerava i capelloni – che li faceva vivere, anzi sopravvivere in Serie A. E pazienza se fosse soltanto calcio e non la propria esistenza. Sibilia costruiva palazzi, non frequentava angeli, riceveva i procuratori con la pistola sulla scrivania, perché gli dava fastidio il peso di una Magnum dentro la fondina. Ha più volte pronunciato il solenne addio al pallone. Poi ha dovuto smettere, anche per far spazio al figlio Cosimo, ex presidente della Provincia e oggi senatore di Forza Italia.

‘ O commendatore, pensionato, sparava fuochi d’artificio per il compleanno: “Così capiscono che non sono morto”. Si concedeva le amichevoli del giovedì. Guardava quei ragazzi che non erano più i suoi, che non pagava più con enorme fastidio, che non poteva accontentare come quando a Juary regalò, nel giro di pochi minuti, la stessa macchina che gli avevano rubato. E diceva: “Curriti, curriti, perché se nun curriti, iati a zappà la terra”.

Twitter: @TecceCarlo

il Fatto Quotidiano, 30 Ottobre 2014