Cultura

‘Carmela e Paolino’ al Teatro di Rifredi: alla ricerca del mondo perfetto

Come nella tradizione delle canzonette allegre e spensierate del Ventennio, atmosfera nella quale siamo qui immersi, per coprire e celare ben altri sentimenti, certamente più tragici, la vita di “Carmela e Paolino” scorre tra finti luccichini di terz’ordine e palcoscenici di periferia e le restrizioni imposte dalla censura.

Il testo di Josè Sanchis Sinisterra (passato al Teatro Metastasio Stabile di Prato come direttore artistico, ma anche lui triturato da politiche e logiche nebulose) portava i nostri nel bel mezzo della guerra civile spagnola. Nella trasposizione di Angelo Savelli (la prima fu al Festival di Radicondoli del 1990), e adesso ripresa al Teatro di Rifredi, siamo passati agli anni ’40 tra fascisti e truppe naziste. Un piccolo grande caso nazionale questo Carmela e Paolino con oltre duecento repliche, dal ’91 al ’98, toccando praticamente tutte le città italiane, ma anche Francia, Bruxelles, la Spagna, il Portogallo, l’Argentina.

Tanta leggerezza di paillette e musichette soft, di quelle che ammiccavano, con i doppi sensi espliciti che immediatamente generavano sorrisi. Intrattenimento schiacciato sotto la cappa della dittatura, una pece di vernice che si avverte palese e solida, di gendarmi stupidi, di gerarchi dai grandi stivali lucidati con olio di gomito. In un vecchio teatro dismesso, con le classiche sedie di legno da cinema di borgata (adesso sostituite quasi dappertutto da più comode poltrone ma meno affascinanti, senza il cigolio della seduta a scomparsa) con gli oggetti di scena coperti da teli e veli, da polvere, ma senza le stelle, anfratto che ricorda i Sei personaggi in cerca d’autore pirandelliano, il duo, coppia nella finzione scenica e nella vita, si incontrano, o meglio si ritrovano.

E’ un andare a ritroso perché qualcosa non quadra; in questo limbo, ci sovviene Una pura formalità di Giuseppe Tornatore, in questa sala d’attesa, in questo stanzone ormai svuotato dal suo significato principe, il divertimento della gente, sembra che aspettino, prima del lungo flash back che alla fine ci riporta a comprendere meglio l’incipit. Amore e morte, Eros e thanatos. E’ anche un omaggio al Café chantant ed alla tradizione dell’operetta come della pantomima, a quel mondo di soubrette e sciantose e macchiettisti, i dimenticati Anna Fougez o La Bella Otero, Marisa Maresca o Pupella Maggio o le più ricordate nel tempo Wanda Osiris e Tina Pica, come, sul versante maschile Nicola Maldacea o Aldo Tarantino.

Giullari ed istrioni, guasconi e saltimbanco e menestrelli Carmela-Edy Angelillo, un po’ Pamela Villoresi e un po’ Mary Poppins, ha una grande voce e verve, e Paolino-Gennaro Cannavacciuolo, ora Eduardo adesso Totò, formano una strepitosa coppia da rivista da far impallidire Petrolini. L’ironia serve ad allontanare la morte, o questi tempi amari una volta che la rappresentazione è conclusa. Come a dire: ridiamo di pancia quando questa è vuota, almeno sembra meno rancido il respiro e meno duro il domani.

Sono dead man walking in questa valle di lacrime dove, nella finzione teatrale, cercano di realizzare il loro mondo perfetto. Vorrebbero che lo spettacolo non finisse mai, che poi arriva la vita, quella sprezzante e devastata, con la quale fare i reali conti. Il fascismo e le regole imposte si possono toccare con mano e, anche se sono minuti e sporadici gli interventi testuali dove emerge il tema, si percepisce uno stato delle cose che tutto ammanta, ammutolisce, zittisce, silenzia, lasciando soltanto la possibilità di risate sguaiate, di balletti, di gag e sketch che non hanno alcun riferimento con la vita vissuta, di armi, morte, distruzione e cannoni e fame, al di là delle mura del teatro. Non Sono solo canzonette.

In Paradiso (un’immagine comunque non così idilliaca né rosea né serena, anzi impietosa con i morti si grattano per la rogna), che è come un incrocio di binari morti rievocazione delle deportazioni naziste, si può incontrare anche Gramsci, che non sono riusciti ad asservire, mentre non si vedono né angeli né santi né tanto meno San Pietro che nell’iconografia classica dovrebbe accogliere le anime ed aprire le porte del regno dei cieli. Forse questi ultimi si vergognano di quello che sotto, all’ultimo piano, sta accadendo agli ultimi, ai deboli, del fango e della feccia della quale è intrisa la Terra, sono imbarazzati sentendosi responsabili di quella miseria e di quello schifo.

Rimane il cabaret, il varietà di mosse e moine, i motivetti che celebrano il matrimonio tra la Svastica e il Tricolore in questo teatro delle falsità dove è obbligatorio non pensare, non ribellarsi, non chiedere ma applaudire, sorridere o meglio ridere forte. Leggerezza e dramma vanno a braccetto raccontandoci della viltà dell’uomo impaurito e pusillanime, vile e vigliacco che accetta il compromesso della camicia nera per aver salva la vita, comunque da cane alla catena, e la forza femminile che si fa eroina e paladina, che non molla di un centimetro la propria dignità.

Dobbiamo scegliere tra coinvolgimento e indifferenza, entrambi decisioni senza ritorno. Schiena dritta o sottomissione. “La guerra è una cosa seria, buffoni e burattini non la faranno mai” (Edoardo Bennato, “E’ stata tua la colpa”).