Cinema

‘Boyhood’: dodici anni (veri) in 164 minuti

Mason Jr. ha 6 anni, una sorellina di poco maggiore dal nome Samantha e i genitori in via di separazione. Il suo sguardo è curioso e vivace, di chi si prepara a scoprire i segreti del mondo. Passano due ore e mezza e…lo ritroviamo diciottenne, al primo giorno di università. Nel mezzo sono trascorsi i suoi anni più importanti, che noi – spettatori – abbiamo avuto il privilegio di goderci attraverso uno dei più sorprendenti film delle ultime stagioni cinematografiche. Benvenuti nell’universo di Boyhood, il capolavoro di Richard Linklater, acclamato a Sundance 2014, Orso d’argento alla Berlinale e certamente degno di entrare nella Storia del cinema, sicuramente americano ma non solo.

Se l’enfasi critica può suonare distonica alle banali informazioni finora sbriciolate sulla pellicola, ecco il tesoro nascosto: Mason Jr, come i suoi famigliari e coprotagonisti, sono interpretati dai medesimi attori “raccolti” in ben 12 anni della loro vita. Il “progetto Boyhood” nasce infatti insieme al nuovo Millennio, quando il tenace Linklater – vate della magnifica trilogia dei Before (Sunset, Sunrise, e Midnight) – s’intestardisce nella volontà di un film “formato real-life-long”, che intrappola la suddetta famiglia dal luglio 2002 agli inizi del 2014, in 39 giorni di riprese effettuate ogni anno a scadenze variabili. Questa modalità ideativo / produttiva ed estetica rende Boyhood unico nel suo genere, semmai solo imparentato a pochi “esemplari” audiovisivi extralong, tra cui i più famosi sono tedeschi: dal doc i Bambini di Golzow documentario iniziato nel 1961 dalla Defa dell’allora Ddr e finito nel 2007, che mette in scena gli spinoff dei membri di una classe dall’asilo all’età adulta, ai celebri Heimat e Berlin Alexanderplatz. Ma nel caso di Boyhood il territorio è ancora “altrove”: un racconto inventato (mirabilmente scritto sempre da Linklater) a cui gli interpreti accettano di aderire per 12 anni della loro vita e che poi verrà frantumato e “ridotto” per montaggio in 164 minuti. Il luogo d’indagine semiotica è dunque a metà tra il formato-film e quello della Serie Tv, a cavallo tra il Reality e il cinema ad episodi.

Entrando nei contenuti, Boyhood illumina una famiglia qualunque del Texas (luogo natìo del regista), la mamma è Patricia Arquette, il padre è l’attore feticcio Ethan Hawke, Samantha risponde al nome di Lorelei Linklater (figlia di Richard) e il prodigioso Mason Jr è Ellar Coltrane. Mentre i figli crescono e i genitori divorziati sviluppano nuove famiglie, pur restando loro legati, sullo fondo scorre la Storia americana, che il cineasta depriva mirabilmente di fastidiosa retorica da tele-news. Protagonista assoluta è dunque la quotidianità che solo uno sguardo eccezionale riesce a rendere straordinaria, nel suo bruciarsi tra gioie e dolori, successi e fallimenti. Con ironia (esemplari le scene coi bimbi che svogliati recitano gli inni americano e texano), suspense e assenza di giudizio su personaggi ed azioni, Linklater riesce nel miracolo della verosimiglianza al reale secondo un percorso linguistico / estetico di un cinema che ha assorbito le sperimentazioni audio-visive più complesse.

Il risultato è il collaudo di un dispositivo di apparente semplicità, in un’armonia lineare ed emozionante. Boyhood sembra un ’ Heimat “contratta” e profondamente americana, però unitaria e temporalmente sfumata. Tutto converge in fluidità e coesione, in narrazione come drammaturgia a raccontare la Famiglia, caposaldo in declino del Made in Usa. Capolavoro.

il Fatto Quotidiano, 23 Ottobre 2014