Cultura

La Russia e il giornalismo che non c’è più: una prefazione per Dmitrij Likhanov

Un mio vecchio amico, e giornalista russo, Dmitrij Likhanov pubblicherà tra poco un libro che raccoglie la sua produzione giornalistica. Il titolo (provvisorio) è “I generi del giornalismo e la vita”. Mi ha chiesto di accompagnare il suo libro con una mia riflessione. Ve la propongo.

Leggendo questo libro del mio vecchio amico Dima, ho provato un senso di “vertigine storica”. Da allora, si può dire, è successo di tutto. Il mondo è cambiato così velocemente che, a volte, è difficile rimettere insieme i frammenti della memoria. Tutto nel corso di una sola vita, anzi di una parte di una sola vita. Non è una cosa frequente. Intere generazioni, in Russia e altrove, hanno vissuto le loro vite all’interno dello stesso quadro politico, psicologico. A noi invece è toccato un tempo di cambiamenti rapidi e violenti. Interessante, senza dubbio, ma anche, talvolta, scomodo.

Ecco: cosa c’è  in comune tra il tempo di “Sovershenno Sekretno” di Julian Semionov, e il tempo di oggi? O tra il tempo di Vitalij Korotich, con il suo “Ogoniok”, e il tempo giornalistico odierno, dove il colore dominante è il giallo dei pettegolezzi? Dove sono andati a finire i milioni di copie dei “Novij Mir”, dei “Druzhba Narodov”, degli “Zvezda”, che era così difficile, anzi impossibile, trovare nei chioschi?

L’altro giorno, nel vagone della metropolitana che mi portava dalla Tverskaja a Ploshad Revoliuzij, ho contato quanta gente leggeva qualcosa sulla carta e quanti passeggeri avevano in mano e consultavano un tablet, un cellulare, un qualche aggeggio elettronico. Vittoria di questi ultimi per 26 a 11. Quelli che leggevano sulla carta, a loro volta, erano così distribuiti: 3 stavano guardando le pagine di un libro, mentre i restanti leggevano un giornale. Nessuno aveva in mano una qualche rivista di quelle “grasse e grosse”, scritte fittissime su pagine lunghissime per risparmiare la carta, dei tempi dell’altro secolo.

E quelli che avevano in mano un cellulare ascoltavano musica, giocavano con qualche gadget, leggevano le e-mail.

Caro Dima: come si può confrontare quest’epoca con la nostra, con la tua, con la mia? Il giornalismo – d’inchiesta, di cui vai così orgoglioso, di racconto, di corrispondenza di guerra, di analisi, di costume  – non c’è più. E questo è ancora il meno. C’è di peggio: non ci sono più le idee, i sentimenti, i progetti, la volontà di combattere per cambiare la vita in meglio, per far prevalere la verità contro la menzogna. Già, di cosa sto parlando? Ho l’impressione che un qualunque giovane lettore di questo tuo libro farà non poca fatica a capire di cosa sto parlando.

Ai tempi dell’Unione Sovietica, – ricordo –  quando Gorbaciov cominciò la perestrojka, la battaglia politica era all’ordine del giorno. C’erano speranze di cambiamento, si respirava un’aria nuova. C’era ancora il “comunismo” ma non c’era già più nessun “pensiero unico”. Nel primo congresso dei deputati del popolo dell’Urss (che erano 2250), alla prima votazione, quella sull’abolizione dell’articolo 6, che imponeva il partito unico, se non erro ci furono circa 700 voti favorevoli.

Come corrispondente straniero provai una specie di ebbrezza: stavo vedendo il cambiamento “in fieri”, cioè mentre stava cominciando. Milioni e milioni guardavano, attraverso gli schermi televisivi, in diretta, i lavori del Congresso dei Deputati del Popolo. E lo facevano di loro propria volontà. Sappiamo come sono andate le cose. Non appena crollò il sistema che impropriamente veniva chiamato “comunista”, ecco che tutti i volonterosi suoi critici (parlo dei giornalisti), appena liberati dalla censura, acconsentirono di buon grado a farsi assoldare (a buon prezzo) dagli oligarchi appena arrivati, e diventarono le loro ciurme d’assalto verso la conquista dei beni dei cittadini ex sovietici, ignari dell’evidenza: cioè che li si stava derubando alla grande, su dimensioni intercontinentali.

Il “nuovo giornalismo russo”, ormai libero e senza censura, finì, in pochi mesi,  in una marmellata di “kompromat”, di “rivelazioni”, di caccia all’”homo sovieticus” da mettere alla berlina. Gli oligarchi, in lotta tra di loro per la conquista di fette sempre più grandi della torta di Stato, usarono le loro ciurme di giornalisti per seppellirsi l’un l’altro sotto montagne di lordura. L’impero del Bene stava intanto dollarizzando la Russia e i Boeing 747 carichi di biglietti di banca da 100 dollari, nuovi di zecca, che la Federal Reserve stampava appositamente per la Russia, atterravano a ritmo costante nell’aeroporto internazionale di Sheremetievo. 

Sappiamo, appunto, com’è andata a finire. Nella Russia colonizzata gli spazi per rimanere liberi dal “pensiero unico occidentale”, ormai divenuto dominante, diventarono presto ristrettissimi, quasi inesistenti, isole marginali. Adesso che scrivo queste righe per te, in omaggio a quel nostro comune passato abbastanza “glorioso”, comunque divertente  e creativo, mi accorgo che la situazione nell’Impero del Bene è diventata più o meno identica a quella dell’ex Impero del Male.

Che sorpresa, nevvero? Sulle montagne russe della cronaca, la Russia è precipitata in basso per un quarto di secolo, per trovarsi pressappoco nelle stesse condizioni morali e psicologiche dell’antagonista che l’ha sconfitta, sparandole addosso i proiettili che provocano piacere della civiltà dei consumi. Ma, nello stesso quarto di secolo, sono accadute, e accadono oggi, mentre scrivo queste righe, altre cose non meno sorprendenti. L’Impero del Bene, indiscusso vincitore, non ha accettato la Russia al suo interno, non l’ha omogeneizzata a sé. Nella sua logica non l’ha voluta amica e alleata: la preferisce vassalla. Non intende condividere, vuole dominare. E così la sta perdendo.

E tutto questo accade mentre l’Impero del Bene sta diventando un ex impero. Finita l’epoca dell’abbondanza, della crescita apparentemente infinita, si sente il suo ansimare minoritario nel mezzo del tumulto di sette miliardi di individui che ambiscono agli stessi beni materiali che esso ha rapinato e prodotto per se stesso.

Ora bisogna restituire. Ma il miliardo d’oro non sembra capire che dovrà farlo, che è inevitabile farlo. E che, se non lo farà, sarà costretto a dichiarare guerra al resto del mondo. Cosa che, per altro sta già facendo, per ora senza dirlo apertamente, e cominciando dalla Russia. Divenuto ora avaro, non può consentire che si guardi nei suoi forzieri. Così si spiega perché i suoi valori non funzionano più, devono essere dimenticati. La libertà di espressione è diventata pericolosa per il Potere ex imperiale. Così, mentre i beni materiali si assottigliano, i valori dell’Occidente si scolorano. La democrazia, che era la merce essenziale da esportare, diventa “defizitnaja”  proprio nelle cittadelle dell’occidente. La tecnologia rutilante, che affascina ancora le generazioni di tutti i continenti, è ora preda dei motori di ricerca, che, invece di liberare l’individuo, lo assoggettano e – mentre accumulano incessantemente i dati – lo manipolano.

E la Russia come reagisce? Quella parte che credeva di essere entrata nell’Impero del Bene, scopre ora di non essere amata dall’amato, sempre più russofobico, quanto più la Russia pretende a un suo ruolo autonomo. Quella parte – sicuramente e di gran lunga maggioritaria – che non voleva entrare nell’Impero del Bene, sta cercando e trovando se stessa. La Crimea  è diventata un segno del suo risveglio. Tutto è rovesciato e tutto si rovescia nel suo contrario. Chissà se, dovendosi ora difendere da un’offensiva totalitaria che viene da un occidente in crisi, la Russia di oggi sarà capace di organizzare un giornalismo più libero e spregiudicato, più colto e rispettoso della realtà di quello dei tempi degli oligarchi. E’ un augurio per te, caro Dima, e per me, per il tempo che ci resterà da vivere e da dedicare all’informazione onesta, cioè alla democrazia.