Economia & Lobby

Il Tfr in busta paga ci dice da che parte sta Renzi (se ce n’era bisogno)

Quella del Trattamento di Fine Rapporto (Tfr) in busta paga è l’ennesima mossa renziana all’insegna della doppiezza, tra la furbizia di Chichibio (il cuoco del Boccaccio che fregava il padrone con la parlantina) e un americanismo ribollito nei paioli di Rignano sull’Arno. Se il primo riferimento riguarda una mentalità locale di chiara matrice tradizionale, l’altro si connette direttamente agli arsenali argomentativi che sono stati messi a punto in questi anni; nella guerra civile non dichiarata dai molto abbienti contro i poveri e gli impoveriti. Soprattutto nelle fucine dell’inganno dall’altra sponda dell’oceano.

Fa testo una storiella non troppo edificante: subito dopo la catastrofe delle Torri Gemelle, mamma Bush – la matrona dai capelli bianchi cotonati – telefonò al suo piccolo Gorge Doppiavu; il presidente stelle-e-strisce che ripeteva pedissequamente quanto gli suggerivano spin-doctor e burattinai: «dimmi baby, come posso contribuire a difendere l’America minacciata dal terrorismo?». «La cosa più americana che puoi fare è uscire e andare a comprare in un megastore».

In effetti Bush jr. era (ed è) un terribile ignorante, visto che gli storici della mentalità hanno ricostruito la radicale operazione manipolativa del pensiero – avvenuta alla fine del XIX secolo ad opera del big business – che trasformò un popolo di pionieri intrisi di cultura del risparmio, come quello americano, in una moltitudine di consumatori compulsivi. Magari a debito, visto che proprio in quegli anni si inventavano strumenti per drogare le vendite; come le rateazioni, le promozioni e il marketing. Tanto da far dire all’economista liberal Galbraith che la vera missione dell’attività d’impresa era diventata quella di «creare i bisogni che vuole soddisfare».

Fatto sta che la fregola di far spendere i meno abbienti è uno dei punti nodali della ricetta anti-crisi dei neoliberisti. Né più né meno di quanto ha escogitato il wonder boy Matteo Renzi, trasformando accantonamenti a scopo pensionistico nel colossale invito a bruciarli sull’altare della ripartenza dei consumi. E chi vivrà vedrà; tanto “domani è un altro giorno”, dice il Rossello Renzi hollywoodiano.

Una mossa antipopolare gabellata demagogicamente per ultra popolare, nel solco di tutte le mosse con cui in questi anni è stato smantellato lo Stato Sociale; dal convincere i lavoratori che si sono trasformati in azionisti finanziari sottoscrivendo i fondi pensione fino al supremo imbroglio camuffato nello slogan truffaldino del “mettere le mani in tasca ai cittadini”: la battaglia antitasse che aveva come unico scopo quello di anemizzare i servizi sociali (assistenza sanitaria, scuola pubblica, indennità) da sostituirsi ricorrendo al settore assicurativo privato.

Per quanto riguarda la definizione della propaganda a favore del consumo come comportamento patriottico, ormai si usa l’eufemismo “keynesismo privatizzato”.

L’obbrobrio terminologico al servizio di una manovra inconfessabile. Infatti, se la ricetta di John Maynard Keynes prevedeva l’uscita dalla crisi attraverso l’indebitamento, anche nel caso in questione trattasi di debito. Soltanto che la versione originale lo concepiva nei termini di investimento pubblico in chiave anti ciclica, qui siamo al prelievo sistematico (e senza funzioni riproduttive) di risorse attraverso l’impoverimento delle famiglie e la precarizzazione delle persone. Una ricetta al servizio dell’inclusione virata nel suo contrario: l’esclusione e la disuguaglianza.

Ma anche estremamente significativa, una volta letta in filigrana, dei veri intenti di chi la propone. In altre parole, dalla parte di chi si sta. Perché per Renzi vale quello che si diceva per il suo modello Tony Blair: a lui non piacciono le privatizzazioni, a lui piacciono i ricchi.