Mafie

Catania come metafora della triste Italia dei Mario Ciancio

Molti anni fa, a un ricevimento romano, il cavaliere del lavoro Rendo (uno dei quattro “cavalieri dell’apocalisse mafiosa” denunciati da Fava, dalla Chiesa e Carlo Palermo) si avvicinò a un ministro col solito sorriso e la mano tesa. Il ministro – Spadolini – lo squadra. Poi senza una parola si volta e se ne va. Quello resta là, col sorriso gelato e la mano per aria. Ecco, la storia dei cavalieri è finita in quel momento lì. Rendo, nonostante le inchieste, non fu mai arrestato e i Rendo contano ancora parecchio (negli Usa, in Ungheria, in Est Europa). Ma il potere assoluto, nel loro povero paese, non l’hanno avuto mai più.

Questa è l’aria che tira in questi giorni nella capitale dell’Italia nascosta, che è Catania. Non sappiamo se Mario Ciancio, alla fine di una delle inchieste che lo riguardano, subirà sentenza; del resto noi, alla sua età, non gli auguriamo certo la galera. Ma potrebbe anche arrivare il momento, in nome del popolo italiano, in cui un magistrato emettesse, o per una cosa o per l’altra, una condanna. A un minuto di carcere, non più: tanto da lasciar dire ai superstiti, anche se tardi e inutilmente, che giustizia è fatta.

Cosa porta a pensieri del genere, in questa fine d’estate? La cronaca giudiziaria, certamente. Ma soprattutto il fatto che da qualche tempo in qua non si sente altro che “Ciancio? Mai visto, mai conosciuto!. Giornalisti, notabili, cortigiani, affaristi, tutti sotto il liotru prendono le distanze. Chi rozzamente, chi con letteraria eleganza. “Ma chi erano i fascisti, in Italia?” si chiedeva Churchill dopo il ’45. Lo stesso, i cronisti futuri studiando le rovine di Catania (speriamo metaforiche) per le generazioni che verranno.

I quarant’anni di Ciancio, in realtà, sono stati una tirannia condivisa. Tirannia perché nella città, per quarant’anni, non c’è stato né sindaco né podestà (che poi qui differivano solo di nome), né vescovo né prefetto, né toghe né deputati; gli stessi boss della mafia, massima istituzione locale, comandavano fino a un certo punto, dovendosi rapportare a interessi ben superiori ai loro. E condivisa perché tutti costoro, e molti altri, non obbedivano a bocca storta, violentati, ma con gioiosa sollecitudine, certi di fare il bene proprio e della patria.

Immaturità democratica, ignoranza? Certo, di democratico qui non ci fu mai niente, salvo qualche occasionale rivolta di plebe o ciò che nei tempi moderni le assomiglia; noi votiamo, a Catania, solo perché gli americani, conquistata la città, c’imposero con le armi la democrazia.

Ma la spiegazione antropologica non convince. Perché Catania è città coltissima, ha dozzine di scrittori e scrittrici che vanno sui giornali, opinion maker di Repubblica, un’università del quindicesimo secolo (ma i più accesi dicono dei tempi di Caronda) e uno stuolo di intellettuali e baroni in grado di disquisire su qualunque argomento. E con tanta cervella in giro, come ha fatto il povero Ciancio a imporre un’egemonia di quarant’anni su cotanta città? Professori di Ciancio (“Qua, la mafia non esiste!”), avvocati di Ciancio, pensatori di Cancio (“Fava? Storia di fimmine, fu!”), destr-sinistr di Ciancio, persino uno stile architettonico ciancesco. Colpa degli Ercolano-Santapaola?

No, no. Niente capri espiatori. La verità è che a Catania, per quarant’anni, non c’è stato un Ciancio solo ma ce ne sono stati ventimila: tutti coloro cioè che hanno messo ogni mattina una cravatta, se la sono annodata con serietà e attenzione e si sono guardati allo specchio soddisfatti di sé e della propria importanza. La borghesia mafiosa, dicevano gli antichi maestri.

Eccezioni pochissime, e quelle poche strane e originali. Dall’ingegnere Mignemi, coi suoi su-e-giù in via Etnea col suo cartello “no alla speculazione” al collo, ai preti di miseria come padre Greco, agl’ingegneri ribelli come Pippo D’Urso, ai professori selvatici come Nino Recupero, ai giornalisti scherniti come Giuseppe Fava; ai parrocchiani di don Resca che denunciava Santapaola al posto di polizia e magistrati, ai volontari del Gapa, ai poveri giornalisti dei Siciliani, ai pochi compagni fedeli come Cosentino e Centineo; ai giudici come Scidà, bruciato dalla pietà per i ragazzi dei ghetti; e pochi ancora. Tutti dimenticati, morti e vivi, allegramente digeriti dalla città grassa e crudele, non puttana simpatica come diceva Fava ma prostituta degli occupanti come nei centoventi giorni – qui, furono quarant’anni – di Pasolini.

L’onore della città, in questa interminabile occupazione – che non è terminata: il dopo-Ciancio sarà “democratico” ma non meno feroce – s’è rifugiato nei poveri e nei ragazzi. I poveri di Catania, ferocemente abbandonati all’ignoranza e ai loro ghetti, in guerra ogni santo giorno per il pranzo o la cena, tiranneggiati dalla mafia e costretti a fornirle, come in un tributo ottomano, parte dei propri giovani per le sue imprese, eppure si ribellarono, nell’84 e nel ’93, sia pure per pochi giorni. I giovani e giovanissimi, in quattro generazioni successive, crearono movimenti e si batterono, soli e senza potere, come leoni. Non furono colpa loro le sconfitte (incontri ai quattro angoli d’Italia emigrati fierissimi “ero nei Siciliani”) né l’orrore sociale che, un decennio dopo l’altro, spremè ferocemente sangue e anima di quella che era stata la più allegra e spavalda città del Sud.

Va bene: hai letto con civile attenzione, amico mio romano o milanese, ma ora cominci a chiederti: “E io che c’entro”? Ma vedi: in realtà abbiamo parlato di Roma e Milano. Catania e la Sicilia sono state un punto d’inizio, ma ciò che era nato qui adesso è compiutamente e pienamente – perlomeno – italiano. Dell’Utri, eletto a Milano, ha governato l’intera Italia (con altri, famosi e non) per un pieno ventennio; il suo “governo”, se è vero che Berlusconi è ancora socio in maggioranza, in un certo qual senso dura ancora. Questo nella politica, che è lo strato superficiale del potere: ma pensa agli “imprenditori” e alla finanza, a quelli che comandano davvero. Quanta percentuale di questo potere è “mafioso”?

Mafioso”, bada bene, non significa “che spara e ammazza” (per questo ci sono dei tecnici dedicati) ma che nel suo complesso, esercita una potestà sempre più piena e assoluta, non rifuggendo dalla violenza ma usandola con precisione chirurgica quando conviene. Il Sistema (che chiamare mafioso è ormai un po’ obsoleto) è un mix di meccanismi sociali, egemonie culturali, violenze mirate e consenso artificialmente indotto. Noi, quaggiù, l’abbiamo visto crescere, a Palermo e Catania, ben prima di Berlusconi. Noi non ce l’abbiamo fatto a fermarlo, e ora è un problema vostro.