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Israele, la grande confisca delle terre palestinesi

“Controproducente”. Il commento iniziale del dipartimento di Stato Usa alla confisca di quasi 400 ettari di terra palestinese, annunciata il 31 agosto dall’amministrazione civile israeliana, è un esempio perfetto di understatement. “Controproducente”, beninteso, rispetto al moribondo processo di pace, non ai diritti umani dei palestinesi. Solo dopo alcuni giorni Washington ha usato parole più dure, chiedendo il ritiro del provvedimento.

Se verrà portata a termine, si tratterà della più ampia confisca di terra nei Territori palestinesi occupati degli ultimi 30 anni e colpirà almeno cinque villaggi palestinesi della zona di Betlemme: Jaba, Surif, Wadi Fukin, Husan e Nahalin. 

La confisca dovrebbe servire ad ampliare la nuova colonia di Gvaot, dove ora vivono 10 nuclei familiari.

La base giuridica per la confisca dei terreni palestinesi risiede nell’interpretazione data da Israele a una legge ottomana del 1858, per cui la terra non usata per scopi agricoli o di allevamento per diversi anni consecutivi diventa “terra statale”.

Il 40 per cento della Cisgiordania è già “terra statale” israeliana. Terra per insediamenti.

Il nesso tra la confisca dei 400 ettari di terra palestinese e il sequestro e l’uccisione dei tre studenti delle scuole religiose Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel, avvenuto a giugno, rende la vicenda ancora più inaccettabile: come fossimo di fronte a una sorta di punizione collettiva nei confronti della popolazione di cinque villaggi, ovviamente estranea a quelle azioni criminali (a cui peraltro risulterebbe estranea anche Hamas, come risulta dall’inchiesta della polizia e dei servizi israeliani).

L’impatto della confisca delle terre, della costruzione degli insediamenti, delle strade di collegamento riservare ai coloni, dei posti di blocco e della barriera di sicurezza sulla vita dei palestinesi della Cisgiordania è devastante: migliaia di palestinesi sottoposti a sgomberi forzati e illegali, limitato accesso all’acqua, alle cure mediche, all’istruzione e al lavoro, restrizioni alla libertà di movimento, difficoltà nel mantenere le relazioni familiari, fine del reddito derivante dai prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento. A questo aggiungiamo i ripetuti atti di vandalismo, raramente indagati dalla giustizia israeliane, commessi dai coloni.

Per rianimare il processo di pace, il primo passo dovrebbe essere lo stop agli insediamenti, in vista del ritiro dei coloni dai Territori palestinesi occupati. Gli Usa, sponsor del processo di pace, dovranno un giorno rendersi conto che gli insediamenti non sono solo “controproducenti”.  Sono una grave violazione del diritto internazionale.