Cultura

Premio Cortina, Baresani vince con “Il sale rosa dell’Himalaya”. E pianta un albero

Dopo la premiazione, il gesto simbolico per creare "un piccolo bosco letterario" tra le rocce dolomitiche. Su ogni pino la targhetta a ricordare il titolo e l'autore dell'opera

“Il sale rosa dell’Himalaya” di Camilla Baresani si aggiudica il riconoscimento letterario per la sezione narrativa. “Sinai” di Vito Mancuso e Nives Meroi vince fra le opere dedicate alla montagna. Un piccolo bosco letterario sta crescendo fra il verde e le rocce dolomitiche, a 2.200 metri di altitudine. Sabato pomeriggio, alle pendici delle Cinque Torri, sul territorio delle Regole d’Ampezzo, sono stati piantati due alberi, dei pini cembri, dedicati ai libri vincitori della quarta edizione del Premio Cortina d’Ampezzo. Il riconoscimento letterario presieduto dalla psicologa Vera Slepoj e organizzato dallo storico Francesco Chiamulera. A mettere a dimora le piante, come da tradizione, sono stati gli stessi scrittori. Su ogni pino è stata legata una targhetta a ricordare il titolo e l’autore dell’opera. Così, “L’albero delle parole”, questo il nome dell’iniziativa, cerca di intrecciare ecologia e memoria, nel tentativo simbolico di restituire alla natura ciò che le è stato sottratto.

A essere celebrato quest’anno, per la sezione narrativa italiana, è stato “Il sale rosa dell’Himalaya”, edito da Bompiani, scritto da Camilla Baresani. Ha avuto la meglio sugli altri libri finalisti: “Tevere” (Marsilio) di Luciana Capretti e “Il convento sull’isola” (Rizzoli) di Marco Polillo. “Costruito sui due movimenti simmetrici di una discesa agli inferi e di una risalita ‘a riveder le stelle’, il romanzo della Baresani – spiega la giuria presieduta da Gian Arturo Ferrari motivando la scelta – nasconde dietro un tono agile e sorvolante, dietro l’ideale precetto di non dare troppo peso a nulla, una consapevolezza amara. Quella di essere prigionieri non già di delinquenti come quelli che tengono Giada (la protagonista ndr), ma di un mondo intimamente falso e bugiardo. Tanto che il gesto finale di Giada, in sé stupefacente, si comprende proprio come unica via di fuga dalla prigione costituita da quel mondo. Molto peggiore in realtà della concreta e miserabile prigione in cui Giada è stata così a lungo tenuta”.

“Sinai” (Fabbri), di Vito Mancuso e Nives Meroi si è aggiudicato invece il Premio della Montagna. La giuria, presieduta dal giornalista Arrigo Petacco l’ha votato per “l’originalità del soggetto, che pone la montagna sacra dell’ebraismo al centro di una duplice esperienza: l’impresa alpinistica e il percorso storico e teologico che ad essa si accompagna, si aggiungono la suggestione di una storia adagiata sui riflessi di una natura spettacolare e le affascinanti esplorazioni di un viaggio all’interno della coscienza”. Le altre opere nella terzina dei finalisti erano “Le montagne della Patria” (Einaudi) di Marco Armiero e “Di roccia e di ghiaccio, storia dell’alpinismo in 12 gradi” (Laterza) di Enrico Camanni