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Isis, l’internazionale del sadismo

Uno psicopatico affetto da sadismo feroce, uno stupratore compulsivo. Che odia le donne. Che gode al pensiero di farne delle schiave sessuali e di venderle poi al mercato incatenate come bestie. Un torturatore represso, collezionista di armi da fuoco e di lame affilate con cui sogna di decapitare un giorno le sue vittime dopo averle umiliate e costrette a rinnegare se stesse e il proprio dio. Un individuo malato, noto alla polizia di una metropoli a noi vicina, ma che braccato è riuscito a sfuggire all’unico destino che gli si addice: il manicomio criminale o le patrie galere. Lo ritroviamo in Iraq, mescolato ai miliziani del terrore, libero finalmente di dare sfogo ai suoi istinti, protetto dall’alibi della guerra santa. Non sappiamo chi sia (un rapper o un disc jockey che forse fino a qualche giorno prima si divertiva a fare stragi sui videogiochi), mentre ne conosciamo l’identikit collettivo ricavato dalle voci di perseguitati, dalle immagini degli sgozzamenti e dalle fosse comuni che recano le impronte di questi assassini professionali in azione sotto i drappi neri dell’Isis o Is. All’internazionale del sadismo, non è un caso, i veri islamici affidano il gioco più sporco.

Diamo per scontate tutte le analisi sulle origini della carneficina: le colpe degli americani, le viltà degli europei, il doppio gioco dei potentati arabi che con una mano fanno affari con gli occidentali e con l’altra pagano chi taglia loro la gola. Troviamo francamente poco interessanti le visioni apocalittiche di chi profetizza l’arrivo in Piazza San Pietro del sedicente Califfo al-Baghdadi, un “criminale di strada” secondo il New York Times, un mezzo impostore che si fa ritrarre impettito durante il sermone nella moschea di Mosul, malgrado la scomunica delle autorità religiose sunnite.

Così come fanno sorridere le esibizioni muscolari dei feroci saladini nostrani, a parole sfegatati fan dei mullah col Kalashnikov, ma che nella vita reale tremano perfino allo scoppio di un petardo. L’attenzione invece dovrebbe concentrarsi su “John” carnefice di Foley, sui cosiddetti “Beatles” e sugli altri tagliagole giunti in Siria per poi dilagare nella pianura mesopotamica, da Londra, dalle periferie parigine e da quelle tedesche. È “la generazione del rifiuto e del rancore” (Renzo Guolo), spesso giovanissimi e non solo maschi, protagonisti dell’infamia “che svuota le vittime del loro sangue e della umanità per mostrare la morte e nella sofferenza peggiore” (Bernard-Henri Lévy). Chi si serve di questa perversione per qualche polemicuzza contro “l’Islam radicale” o per la solita crociata contro i terroristi che si mescolerebbero agli extracomunitari approdati più morti che vivi sulle coste italiane non sa di cosa parla. John e gli altri “scarafaggi” sono tutta roba nostra, i frutti marci dell’Occidente cinico e indifferente. Una malattia che andava curata in tempo prima che occorressero le bombe.

Dal Fatto Quotidiano del 24 agosto 2014