Cinema

Lauren Bacall, con lei a casa Kennedy

Una volta è capitato Pertini. Lo avevano portato a mangiare (lui non mangiava, ma si divertiva molto a guardare, domandare, andare in cucina) da Peter Luger, sotto il ponte di Brooklyn, e credo che, con l’intero “motorcade” – la lunga carovana di macchine nere – abbiamo mandato all’aria molti progetti della malavita locale per quella notte. Poi abbiamo suonato al portoncino illuminato della 74′ strada a Manhattan. Lauren Bacall ha aperto la porta. Si scendevano tre scalini e c’erano grandi stanze una dopo l’altra. Dal fondo Michael Feinstein, suonava al piano Cole Porter, e faceva segni di saluto senza interrompere My Funny Valentine. Sembrava un club proibizionista ma era la casa di Jean Kennedy Smith, la sorella “politica” del presidente Kennedy (che infatti sarebbe stata nominata anni dopo, da Clinton ambasciatore in Irlanda).

Jean Kennedy ha composto subito un piccolo comitato di accoglienza, con il marito Steve, con Arthur Schlesinger, con Lauren Bacall, e l’allora celebre attore Adolph Greene, in semicerchio. A parte la prolungata stretta di mano e l’impaccio della pipa, Pertini non voleva davvero conoscere Lauren Bacall, che a quel tempo era quasi intatta, come appena uscita da uno dei suoi film, stessi occhi con una capacità di dominio imbarazzante, ma senza languori di dolcezza, stessi capelli lucenti con la stessa pettinatura dei tempi indimenticati, la voce di donne che hanno fumato molto e amano ridere ad alta voce.

Dopo la stretta di mano (quella della Bacall era salda, decisa, fatto raro nelle donne americane della sua generazione) Pertini però si è spostato un po’ indietro per non fare gruppo, costringendo Arthur Schlesinger a seguirlo. “Non voglio attraversare lo schermo”, è stata la sua spiegazione (anche se allora non si era ancora visto il film di Woody Allen La Rosa del Texas). “Voglio ricordarmela così, cioè come l’ho sempre vista al cinema”.

Eppure, a casa di Jean Kennedy, il luogo in cui di frequente ci incontravamo, con altri amici del presidente, di Bob e di Ted Kennedy (che a volte veniva da Washington) era difficile che il gruppo non si stringesse subito intorno alla politica, un po’ perché Jean aveva sempre notizie fresche del partito democratico, un po’ perché Arthur Schlesinger era una specie di “presidente” del gruppo, e sedersi sui braccioli delle poltrone o per terra, (allora ero tra i più giovani), per ascoltare il “che cosa c’è dietro o prima di un evento” o il vero contesto di una notizia, era una esperienza da non perdere e lo sapevi in tempo reale.

Ma anche perché quasi solo la politica – da accanita militante democratica – interessava Lauren Bacall. E la sua voce alta e forte, da donna di teatro, guidava subito la conversazione. Lo show business le interessava più come le interessavano i libri e gli scrittori che come rivelazione del “dietro le quinte”. Certo, non mancavano, qua e la, notizie e pettegolezzi, e “si dice” e “si sa di sicuro” su nuovi film e nuove aperture a Broadway (e, per esempio, lunghe discussioni su Edward Albee, che le avevo fatto conoscere al tempo di Morte di Bessie Smith), su Tom Stoppard, su Bob Wilson, su Antonioni (altro incontro felice ) e non mancavano occasionali presenze di attori ancora attivi e da “nome in ditta” come Peter Ustinov e Michel Douglas. Siamo andati da Larry Rivers, che era, in quel momento – almeno a New York – il più famoso e quotato dei grandi Pop Art americani, per vedere i ritratti che Rivers stava facendo di Primo Levi. Aveva cominciato a disegnare (a carboncino, su grandi cartoni) e poi a dipingere, dopo che io gli avevo regalato la prima versione americana di Sommersi e Salvati. “Non sapevo nulla di Primo Levi”, aveva raccontato Larry Rivers alla Bacall, nella prima visita al suo studio (13 strada East) dove bisognava sapere come manovrare un montacarichi esterno all’edificio per arrivare in alto, al terrazzo, totalmente isolato dal mondo, (“come un rifugio di Superman”, dicevamo).

Eccoli di fronte, due grandi americani ebrei che sapevano a malapena di essere ebrei, e nello stesso tempo lo erano in modo profondo, per esempio, in quegli anni, nel loro modo di essere sempre contro il troppo potere e sempre dalla parte dei più deboli, minoranze, diversi o isolati. Su quella terrazza Rivers ha raccontato Levi (che io avevo raccontato a Rivers) a Lauren Bacall (che intanto aveva cominciato a leggere il libro, e io avevo l’impressione di meritare più attenzione ai suoi occhi, per il fatto di averlo conosciuto, e perchè era appena uscito in America The Italian Holocaust storia della persecuzione degli ebrei italiani, con la mia prefazione). Al gruppo della terrazza si era unito (seconda e terza visita) Gianni Agnelli, a cui avevo raccontato di questo insolito evento, che era amico di lunga data della

Bacall e aveva grande interesse per il lavoro di Rivers. E così è accaduto che tre dei dodici ritratti, o immagini ispirate dai testi di Primo Levi (destinati a un’unica mostra) di un artista che stava scoprendo il suo ebraismo, siano stati acquistati da Agnelli e inviati a Torino. Per anni sono stati nel salone de La Stampa e poi al Lingotto, dove solo pochi mesi fa si è posta, in famiglia e nella comunità ebraica di Roma, (che li ha esposti nel Museo della Sinagoga nel maggio scorso) la domanda: “Come mai a Torino? Da dove vengono?”. La spiegazione è in quegli incontri sulla terrazza della 13 Strada East di Manhattan, in quel piccolo gruppo insolito.

Ma negli incontri frequenti, in casa Kennedy-Smith e in casa Schlesinger, era la politica il cuore della discussione, allo stesso tempo intensa e unanime. Lauren Bacall, con questo gruppo di amici quasi fisso, voleva sempre partire o tornare alla celebre e indimenticabile frase di un discorso di Robert Kennedy nel viaggio in America Latina del 1967: “Niente, di ciò che concorre a formare il Pil, ha a che fare con la vostra felicità”. La figlia di un ebreo polacco e di una ebrea rumena, fuggiti appena in tempo alla persecuzione, e adottata come la diva più grande, quando non aveva ancora vent’anni (ai tempi del suo primo film con Humphrey Bogart), da un immenso pubblico americano, ha creduto per decenni e fino alla fine a questa versione grande del sogno americano.

Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2014