Cultura

Beni culturali, una riforma non renziana

La riforma presentata mercoledì dal ministro Dario Franceschini cambia davvero faccia al Ministero per i Beni culturali, a quarant’anni esatti dalla sua fondazione. La prima cosa da dire è che non si tratta di una riforma ‘renziana’. Non lo è sul piano fattuale: perché di fatto Franceschini ha sviluppato e in larghissima parte applicato le proposte formulate dalla Commissione D’Alberti, insediata dall’ex ministro Massimo Bray.

E non lo è neanche in senso ideologico: nonostante gli equivoci giornalistici, il testo che circola e le dichiarazioni di Franceschini non parlano affatto della calata dei supermanager sui musei. La riforma sembra, poi, incompatibile con i ‘deliri’ contenuti nel disegno di legge sulla Pubblica Amministrazione presentato dalla ministra Madia, che vorrebbe mettere le soprintendenze sotto le prefetture in fantomatici Punti Unici di Governo. Più in generale, Franceschini appare sempre meno allineato alle vuote parole d’ordine dal premier-principe: e ci si chiede se questa autonomia manterrà la forma di un defilato nicodemismo, o se invece avrà la forza di tradursi in un aperto confronto politico.

Ma veniamo alla riforma. Il punto che mi pare più rivoluzionario è la creazione di una Direzione generale Educazione e ricerca. Sul punto non sono – mi autodenuncio – un giudice imparziale, perché si tratta di una proposta che ho avanzato io stesso quando ero membro della commissione Bray, e che ho discusso nel mio ultimo libro. Con un ritardo di quarant’anni il Mibact si ricorda di essere nato in seno alla Pubblica Istruzione, comprende di essere un ministero dei diritti della persona e scopre che la sua missione principale è allargare l’accesso al patrimonio attraverso un’alfabetizzazione dei cittadini. E il fatto che la Direzione dovrà predisporre un rapporto annuale sull’attuazione dell’articolo 9 della Costituzione è un segnale politico e culturale di straordinaria importanza.

Un secondo punto positivo è la sostanziale abolizione delle Direzioni regionali, che intralciavano il lavoro delle soprintendenze ed erano divenute centrali di potere permeabili alla politica e agli affari. Il personale tecnico rifluirà nelle soprintendenze, ed esse si trasformeranno in segretariati regionali con funzioni amministrative e di coordinamento.

Un terzo punto, più controverso, è la fusione delle soprintendenze che si occupano di beni artistici con quelle che si occupano dell’architettura e del paesaggio. È ovvio che debba essere lo stesso ufficio ad occuparsi del muro di una chiesa e del quadro che ci è appeso. Il problema è come arrivare a questo risultato. Nella Commissione D’Alberti avevamo proposto di iniziare unificando il sistema all’apice, cioè in un’unica direzione centrale del patrimonio che comprendesse anche l’archeologia (che si occupa del muro romano che sta sotto il muro della chiesa di cui sopra), e che preparasse l’unificazione sul territorio. Franceschini ha preferito – con velocismo, questo sì, renziano – fare tutto e subito: ma il corpo periferico del Mibact è vicino alla morte per inedia, e se lo si obbliga ai salti mortali senza prima fargli trasfusioni di sangue (personale giovane, mezzi e finanziamenti) è fin troppo facile prevederne lo sfascio. Inoltre, cedendo alle pressioni della più forte delle corporazioni, Franceschini ha lasciato fuori l’archeologia: una scelta singolarmente incoerente col resto della riforma.

E veniamo al punto che ha comprensibilmente colpito l’opinione pubblica: la sorte dei musei. Anche qui Franceschini ha preso un’idea dell’epoca Bray, e l’ha estremizzata. Venti grandi musei sono stati resi autonomi, e dotati di posizioni dirigenziali di prima e di seconda fascia. La prima obiezione riguarda la scelta, spesso arbitraria o sbagliata perché troppo legata al numero dei visitatori, troppo poco alla storia e al contenuto dei vari musei. Per esempio: bisognava mettere nella lista Palazzo Pitti (unificandolo) e non l’Accademia di Firenze; bisognava riunire Pompei all’archeologico, e lasciare l’archeologia di Roma col Museo Nazionale romano; bisognava fare il distretto dei siti reali borbonici e non isolare Caserta. E si potrebbe continuare a lungo con gli errori e le occasioni perdute.

Tuttavia, il principio è importante: in Italia i musei sono stati sempre semplici appendici delle soprintendenze, ed anche per questo non sono quasi mai riusciti a diventare veri centri di ricerca. Con questa riforma – per esempio – la pessima esperienza del Polo Museale fiorentino ha termine, e gli Uffizi e il Bargello hanno l’occasione di diventare centri di produzione e redistribuzione della conoscenza paragonabili alla National Gallery o al Victoria and Albert Museum di Londra. Se accadrà o no lo capiremo quando potremo leggere le regole e i nomi delle commissioni con cui i direttori verranno scelti: dalla loro serietà dipenderà se riusciremo a reclutare direttori di musei stranieri e insigni storici dell’arte o archeologi (come avviene in tutto il mondo,) o se ci suicideremo affidando il Colosseo o l’Accademia di Venezia a ex giornalisti, politici trombati, manager dismessi, mogli di potenti vari (come avviene in Italia).

Ancora: tutti gli altri musei non saranno più sotto le soprintendenze, ma sotto un coordinamento regionale guidato da un dirigente Mibact ad hoc, e quindi sotto una direzione centrale dedicata. E anche qua ci sono rischi, ma anche benefici: i musei potrebbero perdere il loro vitale legame col territorio, ma i soprintendenti potranno finalmente tornare ad occuparsi del patrimonio diffuso sul territorio, finora nettamente trascurato. Ci sono infine alcuni errori, che si spera vengano corretti in fase di scrittura del decreto: come quello, pericolosissimo, che depotenzia le soprintendenze archivistiche, facendo dipendere la tutela degli archivi sparsi, e spesso ancora privati, dai grandi Archivi di Stato, che non sono a ciò attrezzati perché fanno un altro mestiere.

Ma il punto vero è che nessuna riforma a costo zero è mai riuscita, come hanno imparato a loro spese la scuola e l’università italiane: e questa riforma dovrebbe addirittura tagliare i costi. Ciò potrebbe condurre al collasso definitivo un sistema il cui finanziamento fu dimezzato d’un colpo da Sandro Bondi nel 2008.

E dunque, o Franceschini riuscirà a riportare la spesa pubblica per il patrimonio almeno al livello della media europea (ora siamo a meno della metà), o tutto questo non solo sarà inutile: sarà la mazzata fatale.