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Amsterdam e l’abolizione della schiavitù: il Keti Koti festival

Anche questo primo luglio, arriva per l’Olanda l’appuntamento con la sua storia; e non quella calcistica, fatta fino ad oggi da traguardi mancati per un soffio (hai visto mai il 2014 fosse l’anno buono per gli oranje..) ma quella storia politica e sociale, la cui immagine è stata riverniciata dalla trasgressione e dai colori degli esperimenti sociali del periodo post-coloniale nascondendo bene il periodo buio della tratta degli schiavi, dell’Impero e della ricchezza costruita nel Secolo d’oro con i traffici della Compagnia delle Indie Orientali  (Voc).

Il primo luglio, come ogni primo luglio dal 1863, nei Paesi Bassi si commemora il Keti Koti, (che in Sranantongo, una lingua creola con base l’olandese, vuol dire “catene spezzate”) in ricordo dell’abolizione della schiavitù in Suriname e nelle Antille;  una celebrazione quasi ignorata dagli olandesi ma forte e sentita nelle comunità che hanno legato la propria storia all’antico Regno d’Olanda. Se l’Indonesia ha lavato via per intero i segni del periodo coloniale, le Antille e soprattutto il Suriname, restano – culturalmente e linguisticamente – legati a doppio filo ad Amsterdam. Il Suriname è l’unico paese extra-europeo dove il nederlandese è lingua ufficiale e quello che, probabilmente, porta più evidenti i segni del passato: la popolazione è costruita per intero sulle comunità di origine africana, javanese, cinese ed indiana, discendente di schiavi, o di quei contractors che dopo il 1863 li avrebbero gradualmente rimpiazzati. Uno tra i paesi più multietnici al mondo è stato colpito, fin dagli anni ’50, da una massiccia diaspora verso l’Olanda accelerata all’indomani del colpo di stato del 1980 che ha portato al potere il futuro (ed attuale) presidente (ora eletto) Desi Bouterse. Sullo sfondo di questi agitati trascorsi politici, i circa 300mila surinamesi che oggi vivono nei Paesi Bassi, hanno fatto dell’appuntamento annuale del Keti Koti, tenuto in Oosterpark, dove sorge il slavernijmonumentum, un’opera costruita nel 2002 proprio per ricordare il dramma degli schiavi in Suriname, il loro “Koningdag” (festa del re).

Ma la stampa olandese, come negli anni passati, si è limitata a poche righe sul ricco programma musicale della giornata, lasciando da parte le complesse problematiche (di ieri e di oggi) che il Keti Koti solleva: la società multietnica olandese rimasta incompiuta e i rapporti tra Amsterdam e le sue ex colonie.

Se l’Inghilterra ha cercato, tramite il Commonwealth ed altre strutture intermedie di mantenere una sorta di legame con il suo ex-impero, i rapporti tra i Paesi Bassi ed i suoi territori di una volta sono quasi nulli. A parte le Antille (Aruba, Bonnaire e Curacao c.d. isole ABC) ed i territori “metropolitani” di St.Eustasius, St. Maarten e Saba, membri a vario titolo del Regno d’Olanda (più che altro per ragioni fiscali. Anzi di paradisi fiscali) con Indonesia e Suriname non esistono rapporti particolari. Anzi, a proposito di quest’ultimo, la 150esima edizione del Keti Koti dello scorso anno è stata l’ennesima occasione per congelare  le relazioni – già difficili – tra Amsterdam e Paramaribo: il sindaco della capitale dei Paesi Bassi avrebbe voluto Michelle Obama sul palco per parlare alla comunità surinamese e giustamente in molti si sono chiesti: non sarebbe più corretto invitare le alte autorità del Suriname? Sarebbe stato, se non fosse che il controverso presidente-ex dittatore Bouterse ha sul groppone una condanna in contumacia ad 11 anni di carcere per traffico internazionale di stupefacenti, emessa qualche anno fa da un tribunale olandese.

Michelle Obama non avrebbe poi parlato al Keti Koti ma la memoria rimossa resta un serio problema per i Paesi Bassi da tempo in crisi d’identità. Il Suriname resta per molti olandesi solo un curioso pezzo di Sudamerica dove la gente parla nederlandese; è il Toko sotto casa (i Toko sono negozi di alimentari che vendono frutta e verdure esotiche) oppure le gang di giovani del zuid-oost, area di Amsterdam che ha accolto gran parte della diaspora. Un po’ poco forse.