Politica

Decreto Pubblica amministrazione: dopo gli annunci, della riforma non c’è traccia

A oltre una settimana dalla conferenza stampa di presentazione, ancora non si vede il testo del provvedimento. I retroscena dicono che il Quirinale abbia contestato decine di articoli (il provvedimento è molto eterogeneo) imponga di spacchettarlo in due parti. Il mistero del "pre-consiglio" dei ministri

“Si è svolta a Palazzo Chigi la riunione del Consiglio dei ministri. Via libera al disegno di legge delega per la riforma della Pubblica amministrazione“. Ecco: via libera, una formula che trasmette il senso di efficienza renziana senza impegnare troppo. A oltre una settimana da quegli annunci (era il 14 giugno), tecnici, parlamentari (e perfino alcuni ministri) si chiedono: ma cosa diavolo avete approvato?

Il testo è un mistero: non c’è. Qualcosa è stato mandato al Quirinale, per la firma. “Una volta che lo mandi al Colle poi ci pensano i loro uffici, noi non sappiamo più nulla”, dicono da un ministero coinvolto. I tecnici quirinalizi hanno una lunga lista di perplessità e stanno facendo saltare decine di articoli: per prima cosa smontano in due il provvedimento, che in alcune versioni intermedie era arrivato ad avere oltre 120 articoli, dalla riforma del pubblico impiego alle infrastrutture alla difesa della mozzarella di bufala e alla tutela del parco delle Cinque Terre. D’accordo che da capo dello Stato Giorgio Napolitano ha firmato di tutto, ma questo decreto era un po’ troppo sporco per essere costituzionale. Allora: da una parte la Pubblica amministrazione con un po’ di appendici, dall’altra Ambiente e Agricoltura. Ma che c’è scritto dentro? Mistero.

Il ministro più coinvolto, Marianna Madia (Pubblica amministrazione) è preoccupata: riformare la burocrazia è già complicato e in Parlamento sarà battaglia, ma se nel decreto ci finisce di tutto i problemi nelle commissioni di Camera e Senato si moltiplicano. Peccato che i colleghi della Madia, a cominciare dal ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, hanno assoluto bisogno di infilare nel decreto misure economiche (si parla di finanziamenti a infrastrutture per 1-2 miliardi, Expo inclusa) o rischiano di dover aspettare settembre. Quindi il merito è un problema, grosso. Ma il metodo è peggio.

Chi decide cosa c’è scritto in un decreto legge? “Il presidente del Consiglio e i ministri”, risponde l’ingenuo. Sbagliato. In teoria c’è un pre-Consiglio dei ministri in cui si affrontano i dettagli tecnici e poi si lascia ai ministri il compito di prendere le decisioni politiche, scegliendo tra opzioni coerenti e definite. Ma nell’epoca di Matteo Renzi i pre-Consigli o non si fanno o discutono cose diverse da quelle che poi entrano in Consiglio. Venerdì scorso i dirigenti dei vari ministeri coinvolti hanno cercato di parlare con la responsabile dell’ufficio legislativo, Antonella Manzione, ma lei era già tornata a Firenze, dove è stata capo dei vigili urbani (e per quello Renzi l’ha voluta). Niente, non si sa cosa è stato approvato. Nel caos di questi mesi, ogni ministero manda dei pezzi di provvedimenti all’ufficio legislativo di Palazzo Chigi che poi li assembla e riformula come crede, nessuno –neppure Renzi o il suo braccio destro Graziano Delrio – ha il pieno controllo politico della scrittura delle norme, per la gioia dei lobbisti e professionisti dei commi che hanno maggiore facilità a influenzare qualche dirigente pubblico che un ministro o un premier.

Nelle redazioni dei giornali girano bozze, come quella datata “12 giugno ore 24” che pare ormai siano diversissime dai testi in mano al Quirinale. In quella bozza c’è anche un’apposita norma che cancellerebbe la condanna subita da Renzi come presidente della Provincia di Firenze per aver assunto con contratti troppo generosi quattro segretarie. Ma tutto scorre, anche le norme dei decreti. E chissà cosa è rimasto.

Alla Camera, da dove partirà l’esame del decreto, aspettavano il testo per venerdì sera, in commissione Bilancio. Più probabile che tutto slitti a dopo il weekend, si ipotizza lunedì o martedì. Se andrà così, saranno passati oltre dieci giorni tra il Consiglio dei ministri e la presentazione di un testo. Neanche ai tempi di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, quando i consigli duravano nove minuti, succedevano queste cose. I testi si approvavano “salvo intese”, cioè con l’impegno di negoziare in un secondo momento i dettagli più tecnici, ma qualcosa c’era. Adesso ci sono soltanto gli annunci.

Da Il Fatto Quotidiano di venerdì 20 giugno 2014 – aggiornato da Redazioneweb