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Riforma Senato, Calderoli: “E’ fatta al 90%”. Ma nel Pd resta il nodo Mineo

L'esponente del Carroccio conferma che l'iter per la riforma è vicino a un accordo. Il patto potrebbe essere siglato con un nuovo incontro tra Berlusconi e Renzi. Ma in Commissione Affari Costituzionali i democratici devono fare i conti con il dissenso dell'ex direttore di RaiNews che non pare avere alcuna intenzione di piegare la testa

“Nove decimi, e’ fatta; siamo al 90%”. E’ Roberto Calderoli, uscendo dalla commissione Affari Costituzionali, a confermare che la riforma del Senato è ormai ad un passo così come si sarebbe nuovamente chiuso il cerchio sull’intero asse delle riforme, anche se all’appello manca solo la “sigla” finale, quella di una stretta di mano tra Renzi e Berlusconi che è data ormai per cerca. La data utile, si sostiene tra gli sherpa di entrambe le parti, potrebbe essere martedì 17. E stavolta il nuovo patto, secondo fonti della maggioranza, andrebbe oltre quello sancito al Nazareno, comprendendo non solo Forza Italia, ma anche la Lega. Sul piatto, infatti, ci sono anche le Regioni, con cui è proseguito il confronto attraverso il sottosegretario Delrio, per il superamento dell’articolo 117 della Costituzione, che riguarda la ripartizione delle competenze con lo Stato.

Certo, l’accordo è ad un passo, ma è dentro il Pd che si gioca, ora, la partita più aspra. Il governo, per voce dello stesso Renzi da Pechino, ha fatto sapere di non voler accettare in alcun modo il vulnus di una maggioranza che non abbia i numeri per essere autonoma sul voto della riforma del Senato (in particolare, ma non solo) rendendo Forza Italia ago della bilancia. Ecco perché, ora in commissione Affari Costituzionali, è diventata dirimente la soluzione della questione riguardante senatore Pd dissenziente Corradino Mineo; sarà affrontata, probabilmente, lunedì dal gruppo dem di Palazzo Madama. Perché la prossima settimana, è la sensazione unanime che traspare al Senato, sarà cruciale per lo snodo delle riforme. Ne è convinto anche il sottosegretario Luciano Pizzetti che ieri ha spronato il gruppo Pd a venire a capo con rapidità del “caso Mineo”. Il problema esiste, perché in commissione i numeri sono 15 a 14 e la situazione potrebbe addirittura “capovolgersi”. Quanto all’assenza di vincolo di mandato, per Mineo (che anche ieri ha continuato a professare la sua distanza da una riforma impostata sul testo base presentato dal governo), fonti del Pd osservavano che “un conto è in rapporto all’Aula, altro rispetto a una commissione dove e’ il gruppo di appartenenza a designare i commissari che, dunque, proprio il gruppo devono rappresentare”.

Su Corradino Mineo, insomma, “la decisione spetta al gruppo Pd”, ma sembra ormai presa se anche la presidente, non renziana, della commissione Affari Costituzionali, Anna Finocchiaro, chiosava: “Mi permetto di osservare che in una commissione in cui c’e’ un solo voto di scarto tra maggioranza e opposizione, una critica così radicale non è solo un’espressione di libertà di coscienza, ma pone un’alternativa tra il fare e non fare le riforme”. D’altra parte, ieri Pierferdinando Casini aveva già sostituito, sempre in commissione, il critico ex ministro Mario Mauro che, per altro, ha reagito malissimo, arrivando a parlare, addirittura, di “purghe staliniane”. Per questo, sempre in mattinata, ha fatto sorridere quando il capogruppo dei Popolari per l’Italia, Lucio Romano, che ha preso il posto di Mauro, ha fatto in Aula un elogio della libertà di espressione, in merito alla richiesta di dimissioni, poi respinte, delle grilline Mussini e Bignami: “La libertà di pensiero e di espressione all’interno di un gruppo o all’interno dell’aula del Senato – ha detto – rappresenta la democrazia”. Nessuno ha potuto fare a meno di notare lo sguardo attonito dell’ex ministro alla Difesa che ne ascoltava il discorso.

Insomma, per il Pd (e per Renzi) il caso Mineo rischia di diventare scivoloso. Dal canto suo, l’ex direttore di Rainews si è difeso così: “Il problema non sono io. Se invece di Mineo in Commissione ci fosse un clone cieco, muto e sordo che votasse qualsiasi cosa gli ordina il capobastone, con una militarizzazione dei voti, resterebbe comunque il problema di votare le riforme 15 a 14 e non con la larga maggioranza auspicata dallo stesso Renzi; c’è un momento di difficoltà per il governo in Commissione, ma con una apertura sull’elettività dei senatori si potrebbe sbloccare subito la situazione”. Questione su cui, però, Renzi ha posto un veto netto trovando, ora, anche una sponda in Forza Italia, via Denis Verdini, ancora uomo della trattativa per conto dell’ex Cavaliere. Insomma, la stretta finale è ad un passo, si pensa addirittura ad un approdo in Aula entro i primi di luglio e se così fosse, Renzi avrebbe segnato un punto importante a suo favore, con un po’ di ritardo rispetto al suo “timing” (aveva detto entro il 10 di giugno), ma senz’altro un successo. Tutto sta a superare, senza troppe scosse, il “caso Mineo”, casomai sostituendolo con Stefano Collina, un renziano di ferro, che ha preso posto – in Senato – di un’altra renziana, Isabella Del Monte, eletta al Parlamento Europeo. E’ solo che Mineo non ha alcuna intenzione di assistere, impotente, alla “decapitazione del dissenso”. Il suo. E, dicono, venderà cara la pelle.