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Calcio champagne: quando il boss porta anche il pallone

Che te lo dico a fare. Era il 1987 e il Napoli de Dios era ai vertici del calcio italiano, una squadra azzurro cielo e dal sangue rosso e latino, come quello che scorre nel cuore della città, tra le vie dei quartieri spagnoli. Quella città che se la vedi, poi, puoi anche morire. Era il Napoli di Maradona, Careca, Alemao e del grintoso e irruente Bagni. Quel Napule è mille colori e una decina di clan.

È di questi giorni la notizia della cattura di Lo Russo junior, figlio del boss di Secondigliano Salvatore, ricercato dal 9 marzo per essersi sottratto all’arresto dopo il tentato omicidio di Giovanni Lista, e tra i cento latitanti più pericolosi. Antonio Lo Russo è stato fermato a Nizza, città dagli odori e dagli scorci partenopei, non scappava dal Napoli, ma dalla “sua” Napoli. Nel 2010 era stato fotografato a bordo campo durante la partita casalinga degli azzurri contro il Parma. Non aveva le scarpe da calcio ecco perché non è entrato in campo. Non aveva con sé neanche una bandierina, altrimenti avrebbe sostituito volentieri il guardalinee. Per lui posto d’onore, riservato sulla pista atletica del San Paolo. Aveva avuto un accredito per accedere al terreno di gioco dalla ditta che curava la manutenzione del manto erboso, così spiegò il presidente Aurelio De Laurentiis. Quel manto erboso poi devastato da un fungo parassita, un virus che con i clan non c’entra nulla, forse.

Che te lo dico a fare. A Napoli succede. I boss sono i boss. Hai visto l’inconsapevole Hamsik fotografato in un ristorante con il boss latitante Domenico Pagano? Ti ricordi il consapevole Maradona che brindava con alcuni dei fratelli del clan Giuliano nella vasca a forma di ostrica? Roba da Scarface. Maradona è Maradona. Che te lo dico a fare.

D’altronde anche Fabrizio Miccoli, detto Lu Maradona e il Romario del Salento, non è stato da meno, proprio lui che si aggiudicò all’asta l’orecchino confiscato al pibe de oro. Da Napoli a Palermo il passo è breve ma la strada molto lunga. Piazza calda e città caldissima come quella partenopea. Città d’arte e di mafia come il capoluogo campano. È qui che Fabrizio Miccoli e Mauro Lauricella, figlio di Antonino, boss del rione Kalsa, danno appuntamento a un amico dicendogli: “Vediamoci davanti all’albero di quel fango di Falcone”. È qui che la telefonata tra Fabrizio Miccoli e Francesco Guttadauro, viene intercettata, “Non venire al campo, ci sono gli sbirri nuovi”, diceva l’attaccante palermitano al nipote del latitante Matteo Messina Denaro, non certo uno qualunque. È qui che Fabrizio Miccoli dedicava i suoi gol a Falcone e Borsellino. È qui che si è scusato e poi ha pianto come un bambino.

Che te lo dico a fare. A Palermo succede. Al Sud succede.

Come quando a San Luca, in Calabria, alcuni giocatori della squadra locale scesero in campo con il lutto al braccio per la morte del boss Antonio Pelle. A pochi km da Locri, città dell’attaccante genoano Giuseppe Sculli, nipote di u tiradrittu Giuseppe Morabito uno degli esponenti ai vertici della ‘ndrangheta. Ma sì, al sud succede. E anche al nord succede. Ma al nord i boss non vanno allo stadio, guardano le partite su Sky in un locale di famiglia che fa parte di quel franchising compulsivo che parte da Milano e arriva fino a Duisburg, città tedesca/calabrese passata agli onori della cronaca per la cosiddetta Strage di Ferragosto del 2007. Al nord non chiedono biglietti omaggio, preferiscono comprare direttamente un grande club – Milan, Milan, solo con te – e costruire palazzi.

Che te lo dico a fare. Al Nord succede, al Sud succede, in Italia succede. E chissà se Super Mario, la prossima volta che farà un giro a Scampia, giocherà a pallone con i ragazzini del quartiere per poi tornare a Milano, nel privè dell’Hollywood, a bere champagne e a mangiare ostriche, questa volta in compagnia di Donnie Brasco. Che te lo dico a fare.