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Musica: Blonder, esordio alienato e senza timore

Più che un disco,  quello con cui esordiscono i Blonder –  terzetto formato da Lorenzo Vermiglio (voce, chitarre), Andrea Sperduti (batteria) e Mauro Passeri (basso) – è il riassunto del primo anno di vita della band. Perché la loro carriera artistica, per ora, assomiglia più a una lunga gavetta, avendo da sempre gravitato attorno al mondo della musica, che a una vita vissuta all’insegna dell’arte e in attesa dell’ispirazione. Ma dalla loro hanno un’esperienza sul campo, che ha permesso ai Blonder di acquisire consapevolezza nei propri mezzi e di perdere ogni tipo di timore reverenziale.

Sguardo e orecchi rivolti verso gli States, il loro nome deriva da un disco degli Swirlies, band semisconosciuta di Boston, in auge negli anni Novanta, e facente parte del circuito indie statunitense – “per noi fu il vero spartiacque tra la musica mainstream e tutto il resto”, racconta il cantante Lorenzo Vermiglio – intitolato Blonder Tongue Audio Baton, che poi sarebbe un vecchio dispositivo audio.

Musicalmente la proposta di questo terzetto è semplice ma di impatto, con riff contagiosi e ritmiche serrate. Nell’Ep Radio (Miacameretta Records) si fondono l’impeto delle chitarre noise alla Sonic Youth a momenti eterei, psichedelici, in cui il denominatore comune è la tendenza verso suoni immediati, vividi, senza troppa produzione o sovrastrutture. “Non siamo partiti da un genere di riferimento – racconta il cantante, dimostrando di avere le idee chiare –  non abbiamo strumentazioni che vogliano replicare qualcosa di già fatto o inserirci in una scia. Suoniamo e basta. E forse un giorno questo suono avrà la luminescenza primordiale dei Sonics. Sarebbe una gran cosa”.

Transistors, il brano che apre l’Ep, è rumoroso e diretto,  More Drugs Blue Sky, ballad intensa, parla della fine delle  illusioni, di quella sensazione che si prova quando crescendo ci si rende conto che la situazione, al contrario, può solo peggiorare. And Feathered Clouds è il brano più intimista: “La sensazione che abbiamo tentato di evocare – prosegue il cantante – è quella dell’alienazione, del voler andare via dal posto in cui viviamo, ma è un posto che non esiste realmente”. Forse alle Hawaii, titolo del brano che chiude il disco, omaggio al garage classico e al puro nonsense. Del resto, la vita al suo meglio è una bellissima tristezza. Tutta da godere, a tempo di rock.