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Lingua madre: nelle nostre lingue, c’è il nostro futuro

“You say laughter and I say larfter” [Tu dici “laughter” e io dico “larfter”] cantava Louis Armstrong. Tra le due ‘risate’ c’è solo una sottile differenza di pronuncia. Ma in tutto il mondo, dall’Amazzonia all’Artico, i popoli indigeni esprimono questo concetto in 4.000 modi diversi.

Purtroppo, oggi più nessuno può dire “risata” in eyak, una lingua dell’Alaska, perché i suoi ultimi interpreti sono morti nel 2008. Nessuno può pronunciarla nemmeno nella lingua bo delle isole Andamane: l’ultima persona che la parlava, Boa Senior, è morta nel 2010. Quasi 55.000 anni di pensieri e idee – la storia collettiva di un intero popolo – sono morti con lei.

Oggi le lingue tribali stanno scomparendo più rapidamente di quanto possano essere documentate, a un ritmo più veloce delle specie in estinzione. Secondo l’Istituto Living Tongues for Endangered Languages, scompare in media una lingua ogni due settimane. Entro il 2100 più della metà delle oltre 7.000 lingue della Terra – molte delle quali non ancora registrate – potrebbero scomparire.

Il fenomeno procede di pari passo con lo sfratto dei popoli indigeni dalle loro terre, con l’allontanamento forzato dei loro figli – costretti a subire sistemi educativi che li privano della saggezza tradizionale del loro popolo – con le guerre, il genocidio, le malattie, l’accaparramento di terre e la globalizzazione.

Ma la morte delle lingue tribali non è solo un problema d’identità per i suoi interpreti – la lingua è “uno specchio della mente”, dice il linguista Noam Chomsky; è anche una grave perdita per la nostra comune umanità. Le lingue tribali sono infatti pervase da complesse informazioni geografiche, ecologiche e climatiche che hanno radici locali, ma un significato universale. Le lingue sono ricche di intuizioni spirituali e sociali – di idee su cosa significhi essere umani, vivere, amare e morire. Così come cerchiamo nelle piante della foresta le cure naturali per le malattie dell’umanità, nelle lingue tribali del mondo esistono già idee, percezioni e soluzioni sulle relazioni che legano gli uomini gli uni agli altri e al mondo naturale. La loro perdita è incalcolabile. Secondo il linguista K. David Harrison, “quando perdiamo una lingua, perdiamo secoli di pensiero umano sul tempo, le stagioni, le creature del mare, le renne, i fiori commestibili, la matematica, i paesaggi, i miti, la musica, lo sconosciuto e il quotidiano.”

Per molti popoli tribali, capire le conoscenze e le informazioni racchiuse in una lingua vuol dire anche sopravvivere: i segreti per vivere nei deserti africani, nei ghiacci dell’Artico o nella foresta in Papua Nuova Guinea sono racchiusi nelle parole e tramandati alle nuove generazioni. “Non so leggere un libro”, ha detto il Boscimane Roy Sesana, “ma sono capace di leggere la terra e gli animali. Tutti i nostri bambini sanno farlo. Se non fosse così, sarebbero morti molto tempo fa”. Gli Inuit del Canada hanno molti nomi per descrivere i diversi tipi di neve; questo dimostra bene quanto siano sintonizzati con il loro ambiente e, quindi, con i suoi potenziali cambiamenti – un’abilità che molti popoli urbanizzati, distanti dal loro mondo naturale, oggi hanno perso.

Il destino delle lingue tribali è lo stesso in tutto il mondo: prima dell’arrivo degli Europei, in America e Australia si parlavano centinaia di lingue complesse; oggi solo poche persone parlano lo yurok in California e lo yawuru in Australia. Tra le tribù dei Piedi Neri del Nord America è raro trovare un giovane che parli la sua lingua madre, lo siksika: la maggior parte sono anziani. Molte lingue tribali, infatti, non sono più parlate con i bambini. Per emarginare gli stili di vita tribali, le autorità hanno deliberatamente, e per lungo tempo, proibito alle tribù di comunicare nella loro lingua. In Canada, i bambini Inuit venivano strappati alle loro case, costretti in collegio e picchiati se usavano la lingua madre. E quando le lingue diventano appannaggio esclusivo degli anziani, le conoscenze in esse contenute diventano a rischio. Le capacità uniche sviluppate dai vari popoli per adattarsi al pianeta e rispondere creativamente alle sue sfide scompaiono insieme agli ultimi interpreti. In un mondo in crisi ecologica, queste informazioni non sono una perdita da poco.

Ma dalla tecnologia viene una speranza per le lingue in estinzione: sempre più persone usano la rete come uno strumento per rivitalizzarle. L’esempio del quechua, la lingua indigena più parlata del Sud America, è incoraggiante: dopo un lungo declino, è rinata con il lancio di una versione di Google in lingua, la creazione dell’applicazione per cellulari “Habla Quechua” e il rilascio di una versione quechua di Windows e Office da parte di Microsoft. Documentare e salvare le lingue antiche è possibile e oggi potrebbe essere ancor più facile grazie alle nuove forme di comunicazione, come i social network e le applicazioni iPhone.

“Dicono che il nostro linguaggio è semplice, che dovremmo rinunciare alla nostra lingua semplice per parlare la vostra”, ha scritto l’inuit Simon Anaviapik. “Ma questa mia lingua, e la vostra, rappresentano chi siamo e chi siamo stati. È il luogo in cui custodiamo le nostre storie, le nostre vite, i nostri antenati: e dovrebbe anche essere il posto in cui trovare il nostro futuro.”

di Joanna Eede, Survival International