Economia

Zone franche, torna la promessa politica da manuale delle leggende fiscali

Dopo Prodi, Scajola e Passera anche Maroni salta sul carro delle aree tax free. Che però servono ad attirare aziende estere e non a incentivare quelle locali. Ma i politici non lo dicono

Il primo a lanciarle è stato Romano Prodi con la legge Finanziaria del 2007. In questi anni non c’è stato presidente di Regione o sindaco di Comune disagiato che non le abbia rivendicate. Sono le zone franche senza tasse. Mitologiche aree dove le aziende godono di benefici fiscali. E in questi giorni è partito il bando per le zone franche urbane, con annesso il rischio che si sia di fronte all’ennesimo flop. Visto il pericolo concreto che i fondi, in futuro, possano essere dirottati su altre leggende fiscali. Come quella invocata da Roberto Maroni, governatore della Lombardia, dopo il referendum svizzero sul tetto all’immigrazione Ue. L’ex segretario leghista ha proposto una zona franca dove si paghi la stessa percentuale di imposte della Svizzera. Un’idea che fa il paio con quella lanciata dall’allora sindaco di Milano Letizia Moratti e da Giulio Tremonti: la Milan free zone. Una sorta di area dove gli investitori stranieri avrebbero avuto agevolazioni sul modello irlandese. Inutile dire come è andata a finire. Solo uno delle tante fermate del calvario fiscale italiano e dell’incapacità della politica di avere una visione programmatica.

LA STAFFETTA PRODI-SCAJOLA – Che manchi prospettiva lo si capisce leggendo la storia delle zone franche urbane. Tutto nasce alla fine del 2006. L’allora premier Romano Prodi prende spunto dai francesi e inventa le Zfu. Numero stimato 18, da suddividere in una decina di regioni. Cade il governo. Così a rilanciare l’idea ci pensa Berlusconi. Meglio, l’allora ministro allo Sviluppo Economico, Claudio Scajola. Che ne individua 22, includendo anche la sua Ventimiglia. “Con l’avvio delle zone franche urbane –sottolinea nel 2008 – diamo una significativa risposta al disagio socio-economico delle aree a maggior tasso di disoccupazione. Stiamo già lavorando per estendere questa misura anche oltre il 2009″. Passa qualche mese perché si rende necessaria una aggiustatina a livello tributario per evitare che gli incentivi vengano dichiarati dalla Ue aiuti di Stato. In sostanza si prevede uno sgravio quinquennale e integrale per le tasse sul reddito e l’Irap e incentivi limitati sui costi previdenziali e imposta sugli immobili. A quel punto il governo può definire l’entità dei fondi. Cinquanta milioni all’anno per due anni, senza però aver fatto particolari valutazioni di impatto sul gettito.

Il primo bando per selezionare le aree e i criteri di accesso parte nell’estate del 2008. Quando termina, con tanto di parere del Cipe, siamo di fatto a ottobre 2009. Mega conferenza stampa e tutto è pronto per partire. Salvo che la Finanziaria 2010 parla un’altra lingua. Tremonti toglie le speranze e da via XX Settembre commenta: “Era una norma scritta dal governo Prodi con una logica illusoria e non responsabile”. Nel senso che il meccanismo di sgravi sarebbe dovuto essere automatico. Esenzioni totali per i primi cinque anni e progressive sui contributi. Peccato che con 50 milioni si sarebbero sovvenzionate che le briciole. A meno di un buco in bilancio. Dunque Tremonti taglia corto e toglie gli automatismi. Comuni e Regioni protestano, ma c’è poco da fare. Senza coperture non si fa nulla. Poco male perché così pensate le zone franche urbane si sarebbero di gran lunga allontanate dalle cugine francesi. Non solo per i finanziamenti irrisori, ma soprattutto per la mancanza di piano di sviluppo sociale. In sostanza, sarebbero state dei recinti dove le aziende avrebbero pagato meno tasse, ma sarebbero rimaste isolate senza vere infrastrutture e senza dare stimolo per il lavoro giovanile.

LA MOLTIPLICAZIONE DI MONTI E PASSERA – Qualche mese dopo arriva il tecnico Mario Monti. L’articolo 37 del Decreto Sviluppo prevede la possibilità “di destinare, nell’ambito della riprogrammazione del Piano di azione coesione, parte delle risorse attivate al finanziamento delle tipologie di agevolazioni fiscali e contributive della legge 296 del 2006”. In sostanza si trovano i fondi, ma per il parto del decreto attuativo bisogna aspettare il 19 marzo 2013. A quel punto, sotto l’egida di Corrado Passera, le zone franche sono diventate 44. Tutte al Sud, divise tra Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, più i comuni della provincia di Carbonia-Iglesias che si configura come un’unica grande zona franca urbana. Che cosa è successo nel frattempo? Semplice, per riutilizzare altri fondi le Zfu sono state di fatto sovrapposte o affiancate alle Zbz, le zone a burocrazia zero, previste dal decreto “anticrisi” del 2010. Altro parto della politica per creare incentivi. Quindi vengono liberati 377 milioni che arrivano dalla riprogrammazione dei fondi europei del periodo 2007-2013, dalle risorse regionali e della terza fase della riprogrammazione del Piano azione coesione. In questi giorni sono partiti i bandi attraverso i quali le aziende dovrebbero ottenere una esenzione massima di 200mila euro, incluso redditi, Irap e sgravi sui contributi in caso di lavoratori residenti nell’area stessa. Il condizionale resta d’obbligo. La probabilità che i prossimi fondi europei vengano dirottati altrove è alta. Dopo oltre sei anni e prima ancora che partano, la politica, in vista dell’ennesima campagna elettorale, già mostra insofferenza per le Zfu e pure per le Zbz (d’altronde sono sigle impronunciabili) e si lancia sulle Zes. Ovvero, le zone economiche speciali. Giusto per non farci mancare nulla dal punto di vista legislativo.

IL GRANDE BLUFF – Quest’ultime – nessun politico tiene a precisarlo – oltre agli incentivi fiscali sommano anche quelli doganali, vedi Iva e altre accise. Non pensate a Livigno che è un’area extradoganale, ma piuttosto un porto franco dove ci siano esenzioni sull’Iva. In sé, non sarebbe una novità. Gioia Tauro, Trieste e Cagliari, infatti, in quanto porti da tempo si sono candidati. Adesso che anche Roberto Maroni si è convinto che per salvare i frontalieri “cacciati” servirà una zona franca cuscinetto, il rischio strumentalizzazione è dietro l’angolo. “Chiederò a Letta, con urgenza, una zona franca in Lombardia in cui la tassazione delle attività produttive sia allineata a quella della Svizzera”, ha dichiarato Maroni martedì 11 febbraio senza specificare alcuna copertura di bilancio. Dettaglio che sfugge sempre. Non al neo senatore Pd, già vice direttore del Corriere della Sera, Massimo Mucchetti che durante l’audizione in Senato per la creazione di una zona economica speciale a Gioia Tauro, ha spiegato: “Oggi stiamo discutendo della creazione di una zona economica speciale in Calabria, ma ci sono anche altre zone, come quelle al confine con la Svizzera che negli ultimi anni stanno soffrendo, prima di trovarci a gestire tante iniziative diverse dai territori, con il rischio di non fare nulla, è meglio pensare a una legge nazionale che regoli queste iniziative”. Peccato che sfugga la questione principale. Le zone franche (nel mondo ce ne sono oltre 3mila) che hanno fatto scuola – vedi Shannon in Irlanda, Tangeri in Marocco e Aqaba in Giordania – hanno un tratto in comune. Servono ad attirare aziende estere e non a incentivare quelle locali. In Italia le aperture del mercato e le sovvenzioni statali continuano a essere manipolate e incrociate dalla politica. Fino ad allora le zone franche serviranno a scopi diversi dalla crescita del Pil.