Politica

Il suicidio politico di Matteo Renzi (e del paese)

Lo ha spiegato benissimo Michele Santoro, ieri sera a Servizio Pubblico: “Era l’ultimo cavallo su cui puntare, e ora dove lo troveremo un altro?”. Perché l’accelerazione della crisi e il passaggio, senza passare per le elezioni, da Letta a Renzi premier era qualcosa che fino a poco tempo sarebbe stato difficile da presagire. Qualcosa che, soprattutto, non ci si sarebbe aspettati da uno che ha fatto della lotta al cambiamento delle forme della politica la sua vera battaglia.

Altro che Job Act, o alleggerimento della burocrazia, o tante delle mille parole che abbiamo sentito nei discorsi di Renzi come in quelli di tanti altri: una retorica delle riforme cui ormai non crede più nessuno. Non per le parole infatti il sindaco di Firenze ha improvvisamente occupato la scena pubblica, catalizzando l’interesse dei delusi del Pd, di cittadini moderati ma senza partito, persino di una parte di chi aveva votato grillo, ma per la sua capacità incidere là dove si annida la vera resistenza alle riforme: la partitocrazia, quel sistema autoreferenziale, dove il ricambio sembrava impossibile, di una classe politica abile solo a perpetuarsi, a drenare una quantità di soldi pubblici: immorale in sé e ancor di più oggi che la maggioranza dei cittadini vive in condizioni di precarietà.

Insomma Renzi ha sferrato sempre la sua battaglia sui meccanismi inceppati del ricambio, facendoli saltare, esponendosi in maniera spesso coraggiosa. E anche se lo stile può non piacere, veder rottamata in pochi mesi una buona parte della classe politica di un partito che negli ultimi anni non è stato in grado di fare nessuna delle scelte urgenti e necessarie, fino al suicidio politico definitivo durante l’elezione del capo dello Stato, ha dato la sensazione concreta che qualcosa, con Renzi, potesse cambiare.

Ma la sfida fondamentale era una: ritornare a dare agli italiani un governo davvero politico, dopo due premier stabiliti dall’alto, e sappiamo ora anche in che modi, cioè, con probabili forzature istituzionali, che nessuna emergenza democratica può giustificare (anzi, proprio l’emergenza, spiegava ieri il rappresentante dei Cinque Stelle Riccardo Fraccaro sempre a “Servizio pubblico”, dovrebbe spingere a una maggiore attenzione alle forme, cioè all’imparzialità assoluta). E qual era l’unico modo di tornare ad avere un governo politico, con un premier forte, perché legittimato dai cittadini? A differenza di quanto diceva la stessa Alessandra Moretti ieri parlando, in politichese, non si può “dare agli italiani finalmente un nuovo governo politico attraverso Renzi”, che subentrerebbe al tecnico Letta. Perché veramente politico può essere un solo governo: quello realmente espressione dal voto, esercitato dagli italiani come un hobby, visto che non sembra più avere alcun peso nelle decisioni di chi poi forma i legislatori, i quali poi decidono delle nostre vite.

Pensare che Renzi abbia aggirato – e non importa che la legge elettorale fosse un ostacolo insormontabile, e non importa che ora lui fosse segretario del Pd – l’unica strada che lo avrebbe reso diverso dagli altri, forte, in grado di avere una sua propria maggioranza politica finalmente chiara e distinta è sconcertante. Perché se tu ti proclami diverso, ma ti inserisci in un contesto uguale a se stesso da anni, diventi identico a quel contesto. Non avevamo bisogno di un premier non votato, appoggiato da un’ambigua maggioranza di centrosinistra e centrodestra, paralizzato dai veti incrociati e con margini di manovra praticamente inesistenti, perché ce l’avevamo già, visto che, tra l’altro, Enrico Letta è persona preparata e seria. Come ha detto sempre Santoro, si poteva continuare incalzare Letta, dandogli ultimatum su provvedimenti fondamentali, accerchiandolo allo scopo di portare a casa obiettivi importanti, con scadenze precisi.

Ciò di cui avevamo bisogno era un leader Pd capace di riaprire la sfida verso l’ala radicale, contendersi i voti dei Cinque stelle e con loro di tutti i milioni di persone scettiche e disincantate che non votano più. Così invece il Pd resterà saldo al centro. In quel centro indistinto dove tutti sono uguali, dove le parole sembrano identiche l’una all’altra, anche se a pronunciarle è un ministro più o meno competente. Ieri si è compiuto il suicidio politico di un politico che, piacesse o no, aveva in mano le carte per un cambiamento reale, l’unico, e forse l’ultimo, possibile. Da oggi, non c’è più neanche questo. Solo buio pesto, e la certezza che la spaccatura del paese, in future elezioni, non sarà ricomposta ma aggravata.