Economia & Lobby

Welfare made in Usa: più semplice fare guerra ai poveri che alla povertà

Negli Stati Uniti ricorre quest’anno il cinquantesimo anniversario della firma, messa dal presidente Lyndon Baines Johnson, su quella che in America viene considerata la più importante e popolare serie di riforme del sistema sociale americano. Lui battezzò tutte insieme queste riforme con due nomi estremamente significativi di quello che si proponeva di creare: “The Great Society” (la grande società) e “The War on Poverty” (la guerra alla povertà) per indicare una società evoluta anche socialmente e priva di sacche di povertà e miseria. Quelle riforme rivoluzionarono veramente il sistema sociale americano portandolo ad avvicinarsi ai progressi sociali ottenuti in Europa grazie anche al New Deal economico americano.

L’idea di Lyndon Johnson di costruire una Grande Società, più giusta nell’eguaglianza e nelle opportunità, conducendo contemporaneamente una dichiarata Guerra alla Povertà, che reclamava diritti di dignità sociale anche ai più poveri ed emarginati, ha permesso di avviare con il sostegno popolare la creazione di riforme di portata storica: il “Medicare”, cioè il sistema sanitario nazionale assegnato (con alcuni limiti ed eccezioni) ai cittadini americani che raggiungono il 65° anno di età; il “Medicaid” quello che provvede alle cure mediche dei poveri in canna; i “Food Stamps”, ovvero dei buoni pasto utilizzabili dai poveri per gli acquisti alimentari; lo “Head Start” (partenza), cioè la protezione del diritto allo studio anche per i figli dei poverissimi; i “Community Health Centers”, cioè degli ambulatori sanitari che danno assistenza medica anche a chi non ha i mezzi o le regolari condizioni di residenza per l’accesso alle normali strutture sanitarie americane (tutte private); infine l’“Holder Americans Act” che provvede a raggiungere con cure e/o alimenti gli anziani disabili incapaci di raggiungere i normali luoghi di assistenza.

Si ricorda che il presidente Johnson, un texano doc, fu catapultato alla presidenza americana nel 1963 dall’assassinio del presidente Kennedy, di cui lui era il vice, ma poi fu eletto per il suo secondo mandato nel 1964 in regolari elezioni nelle quali ha ottenuto un grande supporto popolare. Si ricorda peraltro che il successore di Johnson fu il presidente Nixon, che tutti ricordano per essere stato l’unico presidente costretto a dimissioni prima della fine del suo mandato (a causa dello scandalo del “Watergate”).

Eppure persino il repubblicano Nixon, durante la sua presidenza, continuò nella politica di grandi riforme avviata da Johnson e fu ad un passo dal far passare una riforma sanitaria che, se approvata, sarebbe stata persino migliore di quella che l’attuale presidente Obama sta faticosamente cercando di portare a compimento cercando di superare i continui ostacoli e tentativi di boicottaggio dei suoi avversari politici.

Naturalmente, a ricordare il 50° delle riforme volute da Lyndon Johnson, che esaltano il ruolo del governo americano nell’incombenza di proteggere i deboli e i poveri dallo spettro della povertà assoluta e della disuguaglianza, sono principalmente i politici del partito democratico americano, dato che quelli del partito repubblicano sono invece da molti anni ormai pervicacemente ancorati alla convinzione (vera o finta che sia) che lo Stato e il Governo non possono mai essere la soluzione ai problemi del paese, ma sono invece loro stessi “il problema”.

Ovviamente, è persino superfluo precisare che, senza lo Stato e senza il governo, sarebbe l’anarchia. Nessun presidente con la testa sulle spalle pronuncerebbe mai una simile sciocchezza. Eppure sulla bocca di Ronald Reagan questa sciocchezza divenne subito uno slogan vincente e dirompente, e prospera tuttora nella politica di quelli che se ne fregano dei problemi sociali, delle disuguaglianze, delle sofferenze dei poveri e si preoccupano invece solo di difendere gli interessi delle categorie dei super-benestanti, sposando la tesi che quando si produce ricchezza questa ricade sempre in qualche modo nella società portando benefici a tutti i livelli.

Se qualcosa di vero poteva esserci in questa teoria, quando lavoratori e imprese risiedevano entrambi nella stessa nazione, ora che siamo in pieno trionfo di globalizzazione industriale, commerciale e finanziaria, quella teoria non ha più alcun fondamento. Solo con una seria politica di redistribuzione della ricchezza si potra’ evitare alle economie occidentali un ciclo depressivo lunghissimo e dalle conseguenze disastrose.

Sta di fatto comunque che, di quegli illuminati ideali di 50 anni fa, rivolti ad una crescita equilibrata della nazione attraverso la protezione delle fasce più deboli della popolazione e attraverso una equilibrata redistribuzione della ricchezza prodotta, ormai non solo non rimane più nulla, ma ci troviamo in piena inversione di tendenza: è ai poveri che ora fanno la “guerra” gli ideologi del liberismo democratico, sostenendo che i fondamenti sociali fanno più bene che male, perché tolgono ai soggetti che li ricevono lo stimolo a ricercare in proprio la via della ripresa.

È chiaro che questa affermazione contiene un fondo di verità innegabile, ma per onestà intellettuale si dovrebbe anche riconoscere che ci sono situazioni (e ormai sono la grande maggioranza) che non possono essere risolte dai singoli, perché il singolo è emarginato in un cerchio che da solo non può spezzare.

In periodo di crisi le imprese sono più propense a licenziare che ad assumere. È un fatto del tutto naturale imposto dalla libertà del mercato. Nessun privato imprenditore assume qualcuno per le sole ragioni sociali. Non solo, ma per via del progresso tecnologico e della concorrenza spietata della globalizzazione, anche la disponibilità dei disoccupati a fare lavori più umili o peggio retribuiti non trova spesso alcuna possibilità di collocazione. A parte il fatto, comunque, (che qualunque persona con un briciolo di intelligenza dovrebbe capire agevolmente) che il percorso in salita nella scala sociale è piacevole per chiunque, mentre quello in discesa è tremendo e non piace a nessuno.

Eppure tanto in America, ma ancor più in Europa di questi tempi, si sentono in continuazione “cornacchie”, non solo politiche, pronte a castigare “moralmente” quei lavoratori che non si dichiarano disposti a fare questo percorso sociale a ritroso severamente punitivo.

Ma è forse colpa dei lavoratori e dei poveri se la società moderna è arrivata a questo punto di egoismo e ingordigia dove qualcuno guadagna miliardi (non sempre onestamente) mentre milioni di persone oneste e senza alcuna colpa vengono invece immesse nel vicolo cieco della povertà programmata?

Eppure questa è la triste realtà di questo inizio di terzo millennio: un ritorno alle disuguaglianze e ai privilegi del medioevo. Oggi invece che i nobili abbiamo i ricchissimi, ma la sostanza non cambia. E certi politici, che dovrebbero difendere le conquiste civili e sociali raggiunte nel secolo scorso dalla loro popolazione, trovano più facile aggrapparsi alle sciocchezze di certi slogan di fine secolo per far la guerra ai poveri, piuttosto che fare seriamente guerra alla povertà, come il progresso civile dovrebbe imporrebbe a tutti coloro che assumono un ruolo di guida nella società.