Politica

Sindaci, Stefàno il meno amato d’Italia. Ma il giudizio è ingrato

Ippazio Stefàno, sindaco di Taranto, è il meno amato d’Italia nella classifica sui primi cittadini stilata dal Sole24ore. È un dato: non si può interpretare. Stefàno paga, innanzitutto, il disastro ambientale causato dall’industria: paga per i decenni di silenzi della politica. Non ha ovviamente colpe sul passato, ma gli oneri (tanti) e gli onori (non ne vedo) sono tutti del capo. È il sistema bellezza, diceva qualcuno.

Ha commesso errori madornali, certo. Subito dopo la sua rielezione nel 2012, ad esempio, decise di non nominare la giunta in attesa di conoscere i nomi degli indagati nella maxi inchiesta Ilva per poi scorprire che l’unico indagato era lui e non valutare le dimissioni. Paga le varie prese di posizione frettolose come quella di affermare che le cozze di Taranto erano sane salvo poi scoprire che i valori di inquinanti erano tali de doverle destinare alla distruzione. Ancora, paga episodi infelici come la pistola alla cintola e le accuse di maschilismo dopo la conferenza stampa per il calendario di eventi natalizi con due ragazze infiocchettate di rosso a pochi passi da lui.

Questo basta e avanza per discutere l’opportunità politica di continuare, anche alla luce delle delicate condizioni di salute in cui ora l’uomo Stefàno si trova. Ma a dirla davvero proprio tutta, penso che sia comunque un giudizio estremamente ingrato e frutto, ancora una volta, della perdita di memoria a breve termine di cui soffre la mia città. Non voglio difendere Stefàno (non sono mai stato tenero con lui, anzi), ma non posso (e non devo) dimenticare che nel 2007 ha avuto il coraggio di mettersi alla guida di un comune che si era appena inabissato nel più grande dissesto finanziario della storia repubblicana causato dalla gestione allegra di amministrazioni di centrodestra, da Giancarlo Cito a Rossana Di Bello.

Oltre un miliardo di euro di debiti che avevano trasformato Taranto in una città che “si preparava alla sopravvivenza civile” come scrisse Attilio Bolzoni su Repubblica. Una città, allora, in cui i quartieri erano illuminati a rotazione perché non c’erano soldi per pagare le bollette. Dal municipio partivano missive su fogli già usati perché non c’era un centesimo nelle casse comunali per acquistare risme di carta.

Riportare quel comune a una vita “normale” non era difficile, era un’impresa titanica. Eppure Stefano ci era quasi riuscito, prima che “l’ambiente svenduto” rivelasse l’inquinamento anche morale dell’ultima città italiana (ilsole24ore) e offuscasse anche la risalita dal Tartaro.