Cultura

Una favola impossibile – Testo da concerto per l’orchestra ‘Archistorti’ di Reggio Emilia

La neve stava scendendo fitta da ore. Eravamo alla fine di gennaio e fino ad allora non ne era caduto nemmeno un fiocco. Ma adesso finalmente ci ripagava con un’abbondanza a dir poco esagerata. Un gruppo di ragazzini uscendo di scuola invadeva le strade dove le auto in sosta erano ormai coperte da un manto di neve mai veduto.

Quella brigata di figlioli si trovò a camminare sui tetti delle vetture sepolte. Gli autobus si erano bloccati, i viaggiatori con fatica erano risaliti sulla coltre di neve e messi in salvo.

I ragazzini, raccogliendo bracciate di neve a volontà, si buttarono subito a costruire pupazzi.

In un attimo erano già riusciti a modellare un personaggio di grandi dimensioni e si apprestavano a fabbricarne altri e altri ancora.

Tutta quella neve aveva ormai cancellato le strade, i crocevia, le piazze, e anche il fiume s’era trasformato in una lastra di ghiaccio sulla quale si era posata una quantità impossibile di neve.

Altri ragazzi, provenienti dalle diverse scuole, arrivarono festanti applaudendo i primi pupazzi spuntati in ogni dove. Ma non si trattava dei soliti pampoloni bianchi senza forma umana: questi destavano stupore per la plasticità quasi realistica che esibivano. Sopra i corpi si intuivano perfino gli abiti, mossi dal vento, dai quali spuntavano mani e piedi ben forgiati. Ma più impressionanti erano le teste dei pupazzi: le pupille segnate con enormi bottoni splendenti si muovevano come guardassero di qua e di là stupiti. Allo stesso ritmo si muovevano anche le orecchie, palette mobili da clown. I bimbi scultori avevano pensato anche ai nasi, davvero imponenti. Le labbra evidenti segnavano una bocca che si apriva e chiudeva emettendo suoni che sembravano parole. Ma di dove venivano quei ragazzini, veri maestri della pupazzeria?

E la neve non smetteva mai di scendere. Alberi giganti che decoravano la gran parte dei viali nella città e dentro il parco reale cominciarono a schiattare, spalancando i grandi rami che, squarciati, precipitavano al suolo senza alcun tonfo.

All’istante si leva un vento forsennato, una specie di tormenta che solleva rami incendiati e li trasporta in ogni direzione con tonfi di scoppi e fiamme di qua, di là, di su, di giù.

Quelle vampate di fuoco rischiano di far sciogliere tutti i pupazzi. Ma dove sono, dove si saran cacciati? Saran fuggiti, ma dove? Intorno appaiono giovani che si spostano rapidi sulla neve con gli sci, e anche qualche slitta un po’ imbranata che affonda subito in quella neve troppo fresca. Sul fondo il palazzo reale è quasi invisibile, tutto impastato di neve che il vento della tormenta ha spiaccicato sulle mura e sulle torri. Là dentro tutta la famiglia reale si trova imprigionata. Il monarca è il più nevrastenico: “Ma che razza di nevicata è questa? Ha bloccato ogni comunicazione! Niente telefoni, perfino i cellulari, e poi queste fiamme che si vedono al di là delle vetrate tempestate di ghiaccioli… Che è? Brucia la città?”.

“Niente paura maestà – lo tranquillizza il capo delle guardie che è appena arrivato su una motoslitta delle forze d’ordine – è tutto sotto controllo”.

“Ma che sotto controllo? Le guardie reali mi hanno parlato di pupazzi mobili che danzavano qua e là!”.

“Appunto, si limitavano a danzare, mio signore, nessuna aggressione, nessun danno”.

“E il fuoco?”.

“Ah, solo un fenomeno di natura elettrica, le piante per il troppo peso della neve non hanno retto, a centinaia si sono squarciate e nello squarcio hanno lanciato scintille che hanno generato quei falò. Ma niente di tragico, anzi, è tutto molto suggestivo: fiamme sulla neve. Spero che qualcuno dei nostri operatori della tv le abbia riprese. Non era mai successo”.

“D’accordo, d’accordo – lo blocca ancor più innervosito il monarca – ma questi pupazzi che danzano chi li ha costruiti?”.

“Ah, ma dei bimbi naturalmente”.

“Da soli? Senza l’aiuto di qualche istruttore venuto da chissà dove? Mi han detto che parlano pure, e che dicono parole che sembrano logiche, ma che nessuno comprende”.

“No maestà. I ragazzini venuti da chissà dove ai quali si sono uniti i figlioli delle nostre scuole dimostrano di capire tutto quello che raccontano quei pupazzi, e dopo un po’ ecco che anche i nostri bimbi intendono il significato e iniziano ad esprimersi come loro”.

“Non mi piace ‘sto fatto, sa di allucinazione stregonesca, roba da movimenti ereticali!”.

“Vi prego, sire…” lo interrompe un saggio che s’era posto ad ascoltare in disparte.

“Ah, ecco qua, abbiamo il capo dei sapienti che ci offre la logica serena dei fatti! Li ho nominati per questo! Allora, sentiamo, signor saggio, come spiega il fenomeno testé proposto?”.

E il sapiente di rimando: “Purtroppo, maestà, si tratta di un fenomeno che proviene dalla scoperta dell’informatica, e i bimbi – non parlo dei ragazzini dai quindici anni in su ma proprio degli infanti – hanno subito assorbito per intero quella rivoluzione del linguaggio. Io ho dei nipotini di quell’età che trascorrono ore davanti al computer, chattano con una rapidità che ha davvero del magico, si esprimono con termini da loro inventati che sono spesso la sintesi di un concetto anche complesso e soprattutto sono i principi fondamentali di una nuova morale, anzi direi coscienza collettiva, di cui noi non conosciamo nulla o quasi, a partire dai genitori, che si compiacciono del fatto che questi bimbi se ne stiano tranquilli a vivere esperienze a lor giudizio un po’ fantastiche, ma non certo nocive”.

“Sicuro che non si tratti di qualcosa, al contrario, di ambiguo e pericoloso? Nostro dovere di governanti e vostro di saggi è quello, se non erro, di decifrare espressioni e pensieri dei nostri sudditi. Fate attenzione mio sapiente, già abbiamo una classe intermedia di soggetti collettivi che negli anni siamo riusciti a ipnotizzare con mezzi molto sofisticati e offrendo loro, a quei sudditi, storie zuccherose e ben confezionate attraverso una banalità a dir poco imperiale. Cosicché, anche nei momenti tragici, dove altri popoli giungono a violenze inaudite, questi nostri ipnotizzati a loro volta si gettano in reazioni forsennate, ma tosto ritornano mansueti e si lasciano riammaliare, tranquilli, nella normalità”.

“Sì, ma attenti – lo interrompe il saggio – qui l’analisi non si fa verticalmente, ma per strati. Abbiamo la generazione dei quarantenni, dove troviamo perfino qualche dirigente di punta del nostro governo. Poi si scende ai trenta e ai venticinque anni, e anche lì troviamo fasce di agili salitori di scale o inquilini d’ascensore. Ma sotto scopriamo una fascia che non riusciamo più a gestire con flauti magici e specchietti colorati. È una fascia che non si riesce più a illudere, con la quale l’ouverture della speranza e della luce di un’alba radiosa non scuce alcuna commozione. Hanno già capito che al loro futuro arriveranno con la scoperta che la pensione pagata per tutta una vita non ci sarà più, sparita, spesa dai nostri amministratori per altre urgenti impellenze. E non ci stanno più ad aspettare il giorno della beffa inattesa. E quindi? Qual è il loro sogno? Andarsene all’estero. Sanno quel che li aspetta, fatica, umiliazione, ma dopo la loro conoscenza e l’immaginazione di cui son colmi, riuscirà a farli vincere. Quindi questi figlioli sono cittadini che ritroviamo qui, ma in prestito. In verità son già di là, in altri posti che noi non abbiamo immaginato”.

Il re a questi discorsi non ci sta, anzi, esplode con un: “BASTAAA! Queste panzane hanno il potere di trascinarmi in un’angoscia nient’affatto regale!”.

 

Intanto i costruttori di pupazzi mobili hanno trovato tracce dei piedi delle statue di ghiaccio che si dirigono verso la cattedrale. Arrivano davanti a una pusterla spalancata, entrano nel duomo maggiore e, nella navata centrale trovano tutti i pupazzi che se ne stanno seduti sulle panche e guardano la cupola che copre il transetto. I ragazzi fanno gran festa ai loro amici ritrovati, i quali mostrano una tenera tristezza nell’abbracciarli. Uno dei pupazzi, il primo costruito, dice loro: “Ci spiace, ma è tempo che torniamo a casa”.

“Ah! Esiste una casa dei pupazzi?!” esclamano i figlioli.

“Noi la chiamiamo così, per semplificare”.

“Ma tornerete ancora qualche volta?”.

“Certo, ci siam trovati molto bene!”.

“Grazie – dice un ragazzino – per i buoni consigli che ci avete dato. Li terremo a memoria”.
All’istante si sente uno strano cigolare; tutti guardano in su ed è la cupola che ha iniziato a girare su se stessa. Il transetto vibra.

“Tocca a noi!” dice il capo dei pupazzi. E così tutti insieme salgono nel coro. In un attimo l’intera architettura dell’abside rotea su se stessa, si leva lentamente e sale, finché sparisce nel cielo.

I bimbi stanno guardando in su; poi, insieme, escono, senza pronunciare una sola parola, dalla cattedrale.