Politica

Riforma elettorale: la fiera delle vanità

Il solito Candide di turno potrebbe illudersi che il senso di una riforma elettorale consiste nel perseguire due risultati migliorativi: rappresentanza e governabilità. Difatti proprio questo è quanto dichiarano – apparentemente e all’unisono – tutti i gruppi politici che si accalcano attorno alla carcassa della democrazia nazionale, per sbranarne gli ultimi brandelli residuali. Fermo restando che ognuno di loro persegue ben altri obiettivi rispetto al dichiarato, riassumibili nell’immortale formula: tirare l’acqua al proprio mulino.

Gli alfaniani confidano nel doppio turno per non dover sottostare alle forche caudine del riapparentamento con Forza Italia e relativo pellegrinaggio a Canossa, mentre Silvio Berlusconi persegue il turno secco per imporre ancora e sempre il proprio volere sul rissoso e tendenzialmente centrifugo conglomerato tra il fascistoide, il possessivismo antitasse e il perbenistico destrorso che chiamiamo impropriamente Destra (facendo schiattare di sdegno l’ombra di Camillo Benso Conte di Cavour).

A Enrico Letta (e al suo “aio”, il veteropostcomunista Giorgio Napolitano), ferma restando la volontà prioritaria di rinviare ogni cambiamento alle calende greche, interesserebbe una soluzione che garantisca le “larghe intese” come chiodo solare di una corporazione politica che si prostra innanzi al feticcio della stabilità; quale maschera vudu per tenere sotto controllo la società (presupposta posseduta dagli spiriti maligni del divisivo e del conflittuale). Simmetricamente, al tandem Beppe Grillo & Gianroberto Casaleggio preme andare alle elezioni quanto prima; sicché anche il Porcellum potrebbe andare bene per tradurre in voti percentuali crescenti di indignazione anti-casta.

Poi – ultimo ma non ultimo – c’è Matteo Renzi e la sua ansia di imbullonare ad ogni costo il bipolarismo con il modello “sindaco d’Italia”, per un evidente disegno personalistico: potersi accreditare del titolo fordiano de “l’uomo che uccise Liberty Berlusconi”. Con il piccolo particolare che la realtà – alla faccia del furbetto putto fiorentino – ci ripropone ormai un quadro politico irrimediabilmente tripolare. Per cui l’azzardo renziano di eliminare il terzo incomodo – stante la sostanziale parità numerica delle tre polarizzazioni – potrebbe tradursi in un clamoroso karakiri: cosa direste se alla fine il terzo polo asfaltato elettoralmente fosse proprio il Pd renziano, sicché in campo rimanessero solo Berlusconi e Grillo? Tutto da ridere, visto che in questa maniera si concretizzerebbe l’apoteosi dello star-system (e – al tempo stesso – la rottamazione del giovane segretario democratico, il quale potrebbe finalmente dedicarsi alla sua vera vocazione; come del resto ha lui stesso confessato: il presentatore televisivo).

Insomma, il dibattito sulla nuova legge elettorale non è altro che l’ennesima fiera delle vanità; che rivela ancora una volta l’infimo livello di una classe dirigente che non potrà essere trasformata nel proprio intimo da semplici regole del gioco. Ci vuole ben altro. Del resto l’apparente panacea delle panacee – il ritorno al voto preferenziale – dimentica che per decenni esisteva un fiorente mercato delle preferenze, in cui i voti si compravano a pacchi, in base a vere e proprie quotazioni da borsino elettorale. Si lasciano nel dimenticatoio le scarpe del Comandante Lauro che venivano consegnate una prima e l’altra dopo le elezioni, a seconda degli andamenti nelle urne. Caso estremo di un’immensa casistica di voti di scambio ed altri mercanteggiamenti, a riprova che l’autonomia di giudizio del corpo elettorale, specie in un Paese di modestissimo civismo, è una favoletta per spiriti semplici.

Purtroppo non sono le regole a rendere civili, quanto lo spirito civico a produrre regole civili. E non ci sono scorciatoie, in questo percorso verso la buona politica (e la buona società) che appare ancora lunghissimo.