Società

Crisi, la crescente povertà e l’impossibilità di girare lo sguardo

Pedalo in bicicletta, in una fredda sera d’inverno, mi sento soddisfatto. Sono reduce dalla conduzione di un gruppo terapeutico in cui le persone hanno mostrato fiducia e capacità di ascolto reciproca, dopo un momento difficile. Ogni volta mi meraviglio delle risorse che l’ essere umano può mettere in campo, se semplicemente ascoltato nei propri bisogni, senza che qualcuno, dall’esterno, ci aggiunga cose non pertinenti. Con questa meraviglia del “basta così poco” in corpo che mi scalda ancor di più delle gambe che pedalano in successione, in tacita armonia tra di loro, divago nei miei pensieri, agognando il momento in cui arriverò a casa, mi preparerò la cena e sceglierò un libro da cominciare a leggere, finendo così la mia lunga giornata lavorativa. Degusto, nell’affanno del movimento che mi chiede l’ultimo sforzo prima del riposo, l’attesa delle piccole cose che rendono la vita grande a dispetto di ogni problema a cui la quotidianità mi chiede di fare attenzione, in questo periodo di crisi e destabilizzazioni continue. Non è mia intenzione dimenticarmi delle preoccupazioni, ma permettermi il lusso di poterle accantonare ogni tanto. Destino vuole che non sia così semplice.

Sento un rumore lungo il fianco della strada che sto percorrendo, è abbastanza buio e c’è solo un edificio, non vedo alcunché. Guardo meglio, alla base della costruzione c’è una rientranza e lì scorgo un cartone. “C’è un uomo” – penso – e il braccio che fuoriesce subito dopo, me ne dà conferma. Pedalo più forte per sfuggire l’angoscia e un improvviso senso di colpa, forse era meglio non voltarsi, a casa ho la cena ed un libro che mi aspetta…io.

Due giorni dopo, un’altra serata molto fredda, sono a piedi, sto andando da mio fratello per un saluto. Il nostro bassotto ha appena subito un’operazione importante e voglio vedere come sta, mi pregusto alcuni momenti in cui potrò accarezzarlo e sentirmi accolto nelle feste che  mi farà. Anche qui mi diletto nel gusto delle piccole cose, facendomene riempire il petto. Scendo un sottopassaggio e, mentre lo percorro, vedo un uomo e una donna che si danno un bacio e si stringono forte. Lui mi vede passare e mi saluta, io non lo conosco, ma faccio altrettanto, è una gentilezza inaspettata e senza pretesa la sua. Sono entrambi distesi su un mucchio di coperte e cartoni. Nel loro stringersi non c’è solo il riparo dal freddo, ma palpita, nell’aria gelida densa di una insolita nebbia, il riparo dalla solitudine che sa essere molto più pungente dell’inverno, non avendo una stagione a limitarne i confini. Non riesco a guardarli che per qualche secondo, continuo a camminare, lo sguardo si rivolge al suolo come a volervi sprofondare, sono imbarazzato, nuovamente il senso di colpa immotivato scorre insieme al sangue nelle vene. Il passo si fa più veloce, non voglio vedere, non voglio fermarmi a pensare. Devo tutelare le mie piccole cose perché, se non ho diritto almeno di proteggere quelle, quali altri diritti mi rimangono in questa epoca pazza e precaria?

Ci penso, non posso evitarlo, così come non posso evitare di sentirmi responsabile.

Molti potrebbero farmi osservare che le città sono piene di senza tetto e non lo  sono da oggi. Certo, ma quello che questi due incontri, così ravvicinati nel tempo, mi fanno capire è che non mi è possibile fare dell’abitudine una giustificazione. Mi sento in parte responsabile di quello che vedo non funzionare, ogni volta che è davanti a me, non lo scelgo, ma sono convinto che sentirlo mi può aiutare ad operare un cambiamento reale di cui nutro il bisogno, nonostante non sempre ne avverta la speranza.

Crisi o non crisi, problemi personali e non, fatica a sbarcare il lunario o meno, rimanere indifferenti di fronte ad un essere umano che a malapena possiede il cartone con cui si copre non è concepibile. Mi illudo di passarci di fianco e fare finta di niente, ma è proprio quel “fare finta” che rivela l’impossibilità di non venirne turbato. Fingo per difendermi, se mi difendo è perché mi sento attaccato, fingo perché, se mi interessassi alla condizione di quelle persone, mi farebbe molto male contattare la mia impotenza. Mi viene da scegliere la soluzione più facile, meglio evitare di soffrire per degli estranei, quando ho già i miei di problemi. A me nessuno dà una mano. Cosa potrei fare io per loro pure volendolo? Non posso darli un tetto e poi sono degli sconosciuti, potrebbe essere pericoloso avvicinarsi, non hanno niente da perdere. Tanti sono i pensieri che mi martellano in testa, mentre il freddo entra nelle ossa, ma non è dettato dalle condizioni metereologiche. E rifletto sul significato della parola violenza mentre il cuore continua a battere e ribellarsi a tutto questo.