Musica

Musica: l’inferno secondo Mark Lanegan

Nel cuore di Bologna, in uno dei più antichi edifici della città rossa, c’è il Duse, teatro all’avanguardia e luogo dedicato a manifestazioni teatrali sin dalla metà del XVII secolo. Dotato di un’ottima acustica, è questo il posto eletto da Mark Lanegan per ricreare il proprio inferno personale. Luci soffuse rosse a illuminare il palco e il buio tutt’intorno,  la sensazione durante l’esibizione di questo vocalist dotato di una voce baritonale, profonda e introspettiva, è proprio quella di trovarsi agli inferi.

Disincanto, malinconia senza sentimentalismi. Abbandonate le camicie di flanella e quel sound carico di rabbia e dolore interiore, Mark Lanegan leader storico della grunge-band Screaming Trees, da qualche anno ha intrapreso una carriera artistica da solista, ottenendo il consenso di molti dei vecchi fan, ma anche il rifiuto di molti altri di seguire – in ambito musicale –, le performance di questo artista istrionico, capace di maturare e di immettersi su dei binari totalmente diversi da quelli  seguiti.

Si presenta dietro a un inedito paio di occhiali da vista con montatura nera, in giacca di velluto e stile anni Settanta. Gli anni Novanta, Seattle, il Grunge sono lontanissimi. Guardare questo grande artista fa un effetto strano. Il look, le movenze, l’atmosfera che si respira: tutto fa venire alla mente la figura del Re Lucertola, Jim Morrison, c’è una certa affinità in quel modo di fare e anche una sorprendente somiglianza estetica.

Appare a suo agio, Lanegan, in quell’oscurità e tristezza perché autentiche e reali. Perché gli appartengono. Con lui, sul palco, c’è una formazione priva di batteria e percussioni. Alla chitarra e al sax c’è Duke Garwood, polistrumentista londinese, sconosciuto ai più, ma con quattro album all’attivo e svariate collaborazioni sul groppone: con Mark ha registrato l’album Black Pudding. Per lui, Lanegan ha sempre una parola buona, “è uno dei miei artisti preferiti e una delle migliori esperienze di registrazione della mia vita” ebbe a dire riguardo al musicista inglese. Un’altra colonna portante nella struttura della band è il talentuoso chitarrista Jeff Fielder, che visto di primo acchito sembra il sosia di Elvis Costello: è lui che fa brillare la miccia incendiando la serata.

Si parte con un brano tratto dal disco BubblegumWhen Your Number Isn’t Up, cui segue la cover di un brano tradizionale natalizio The Cherry Tree Carol.  Gli arrangiamenti, tra chitarre acustiche, sax e violini, circondano di magia la figura del cantante. Si prosegue con One Way Street e con The Gravedigger’s Song tratta dal fortunato disco Blues Funeral. In sala c’è chi azzarda paragoni, c’è chi tira in ballo addirittura Leonard Cohen, chi Tom Waits, lui del resto, è uno che certi accostamenti può meritarseli. La sua voce infernale, con quell’inconfondibile timbro catramoso, a questo punto intona un brano tratto sempre dallo stesso disco, Phantasmagoria Blues, dopodiché la rotta seguita vira verso altri lidi. 

Ci si concentra sul penultimo disco della produzione, quel Black Pudding caratterizzato da suoni scheletrici, minimali, uscito nel maggio scorso e cofirmato con Garwood: sono ben cinque i brani interpretati in sequenza, War Memorial (ideale l’atmosfera durante la quale ci si immagina quella squadra di disertori impiccati a una quercia) e poi il tex-mex di Mescalito, Cold Molly, l’oscuro vagabondare di Driver  e una intima Pentacostal macchiata di nicotina nel descrivere quegli universi poetici.

Arriva a questo punto il momento di Imitations, l’ultima opera dell’artista di Ellensburg, un album di cover composto da canzoni estrapolate dalla collezione musicale dei suoi genitori e da canzoni di artisti contemporanei come Chelsea Wolfe, Nick Cave and the Bad Seed e The Twilight Singers. Dapprima Pretty Colors  cover di Frank Sinatra, poi Mack the Knife di Bertolt Brecht e la splendida You Only Live Twice di Nancy Sinatra. 

A questo punto, a sorpresa, Lanegan omaggia lo scomparso Lou Reed. Mormora al microfono un lampante “This is for Lou”, dopodiché gli archi attaccano con la sinuosa e splendida Satellite of Love, brano molto apprezzato dal pubblico a giudicare dalle ovazioni. La conferma che per lui, è facile fare le cose magiche. Dopo una breve pausa, chiudono la performance On Jesus’ Program e l’unica cover degli Screaming Trees, Halo of Ashes. Arriva inesorabile il momento in cui c’è da recidere quel legame stretto che si è andato via via creando durante la serata tra pubblico e musicisti, un tutt’uno che solo la musica è in grado di ispirare,  quella comunione mistica tra chi suona e chi ascolta. Fielder però, alla fine del suo assolo di chitarra fa sapere che Mark “è disponibile a firmare autografi” e che sarebbe stato possibile rincontrarlo di là, al banchetto merchandising”. Vive le Rock!