Cultura

Arcade Fire, ‘Reflektor’: storia di una bolla mediatica (e poco altro)

Gli Arcade Fire sono tra quelle band che vuoi o non vuoi devi fartele piacere per forza: un po’ per senso del dovere (e della professione), un po’ perché non si parla d’altro, un po’ perché una spinta mediatica oltranzista li ha eletti, senza alcun merito di sorta, al rango di miglior gruppo del mondo: pagine su pagine, fiumi di inchiostro per una ghenga che ha sì carte e numeri importanti ma non esageriamo, al massimo diciamolo pure ma vedendo bene di non farci sgamare.

 

Già perché sarebbero in tanti a risentirsi, forse in primis loro stessi, che tuttora non vorrebbero esser presi così sul serio, come invece si ostina a fare il resto del mondo circostante. “Reflektor” è il sintomo, la prova vivente di una discografia malata, che s’appiglia alla giostra di turno nell’ostinazione inutile di non voler morire, nel tentativo di guadagnare quelle 2 lire che serviranno a placare gli animi di chi, se non cieco o sordo, non può non vedere l’essenza delle cose: gli Arcade Fire sono un simpatico accessorio, un vessillo al soldo di un’industria che non potendo e non volendo investire si ripete in maniera evidentemente autoreferenziale, sposando la causa (musicale) di chi, come la band in questione, è riuscita nell’impresa quasi titanica di azzeccare 3 canzoni su 13, dividendole oltretutto in 2 dischi, per un totale di neanche 80 minuti di musica.

Il fine è quello di scioccare l’ascoltatore, ponendolo di fronte ad una sorta di opera omnia degli anni duemila, a partire dal singolone omonimo, che vede addirittura un cameo – intrigante – firmato David Bowie, che entra ed esce dal pezzo col fare di chi ha dimenticato il gas acceso: il tutto è però credibile, quasi la narrazione di un incontro spontaneo. Fino alla successiva “We Exist”, che scimmiotta l’illustre predecessore senza però suscitare alcun clamore, anzi quasi irritando, con quell’incedere continuo che non arriva mai al dunque: come un amplesso che non ha motivo di venir ritardato. Per non parlare del ritmo quasi caraibico del combo seguente, quello costituito da “Flashbulb Eyes” e “Here Comes The Night Time”: jingle pubblicitari più che canzoni. “Normal Person” fa riprendere quota al disco non foss’altro perché ha limiti e segmenti già più determinati, che non si perdono in alcun labirinto garantendo comunque una via d’uscita a chi lo voglia: il che è già qualcosa. Il primo disco arriva quindi all’esaurimento (come i nostri buoni propositi) con “Joan Of Arc”, saltando a piè pari la sesta “You Already Know”, che poteva finire nel cestino, poiché non è neanche gratis.

Ma al peggio non c’è fine e, ad esser buoni, la seconda parte è raccapricciante quasi quanto la prima, aperta dalla ripresa ambiziosa della già ascoltata “Here Comes The Night Time”, qui servita nella sua seconda evoluzione, che di darwiniano non ha veramente nulla, laddove lo spirito adattivo è esclusivamente quello dell’ascoltatore, che vede lentamente estinguersi le ragioni di un simile acquisto. Encefalogramma più che piatto fino all’undicesima “Porno”, che complice forse il richiamo dell’eros vede bene di salvarci, eccome, da thanatos: cioè dalla morte. Un brano gradevole, con aperture importanti, che riporta la musica degli Arcade Fire al livello che merita e cui c’avevano abituati, disegnando praterie finora assaggiate solo in cartolina. “Afterlife”, oltre ad essere il penultimo brano dell’album, è anche il più bello: rappresentativo di quello che la band canadese potrebbe essere e che, evidentemente, non è stata, arrivando a noi con un prodotto che si manifesta prigioniero di qualche paragone azzardato, che seppure volessimo rigirare in negativo, non renderebbe comunque giustizia alla pochezza di un disco che, in questo senso, suona a dir poco devastante.

E sia chiaro, l’acrimonia che riverso è esclusivamente figlia del fatto che mi sento tradito, perché io di “Reflektor” mi sarei voluto innamorare, avrei voluto fondermi con lui almeno per i prossimi 6 mesi: ma lui (loro) ha toppato dal primo appuntamento, nonostante io fossi andato pure dal parrucchiere per farmi trovare impeccabilmente pronto. Ma questo non cambierà evidentemente il corso della storia: la musica degli Arcade Fire risuonerà pressoché ovunque, scandirà i nostri acquisti natalizi e riempirà le più grandi arene del mondo. Fornendo forse l’ennesima prova al teorema per cui consenso e qualità non sempre viaggiano di pari passo: peccato, quello sì li avrebbe consegnati alla storia.