Cultura

Steve McCurry a Milano: una foto, qualche domanda

C’è chi ha detto, giustamente, che il compito di una fotografia non è quello di dare risposte ma di porre domande. E allora ecco una foto che qualche domanda, a me, la pone.

Coda in attesa per Steve McCurry (Milano 4 nov. 2013)

La fotografia riguarda il celebre fotografo Steve McCurry, ma non è sua. L’ho scattata invece io, la sera del 4 novembre scorso. Si vede una coda infinita di persone che, pazienti sotto una pioggia battente, attendono nelle speranza di riuscire ad entrare al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano. Motivo? Steve McCurry – appunto – tiene una conferenza. Nessuna foto esposta, ma solo lui che parla in occasione dell’uscita di un suo libro. Per la cronaca, più che per la storia, va annotato che la quasi totalità di quanti hanno atteso se ne è tornata a casa senza poter accedere alla sala, subito satura.
Questa visione, quasi “epica” e inusuale per la fotografia italiana, mi pone un certo numero di interrogativi che provo a condividere con voi, senza alcuna gerarchia e senza nessuna certezza.

La domanda delle domande è: come va interpretata, cosa ci indica, una simile massa di persone “disposte a tutto” pur di presenziare al cospetto di un fotografo?
Sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco. È fuori discussione, dal mio punto vista, la grande qualità della produzione di Steve McCurry. Viene considerato – e anch’io lo considero – un maestro, un grande fotografo, un magnifico giramondo capace di raccontarlo come pochi sulle pagine, per esempio, del National Geographic.
Ma in questa occasione sembrava trattarsi non di un fotografo bensì di una rockstar. E, per di più, in un Paese come l’Italia, dove la cultura fotografica è ai minimi termini.
E allora quali gli ingredienti di tale “esplosione”?

Mi vengono in mente, alla rinfusa, alcune ipotesi.
McCurry è divenuto quasi mitologico soprattutto presso i giovani (la stragrande maggioranza dei presenti) non tanto in quanto fotografo ma piuttosto come incarnazione del viaggio, dell’avventura, della libertà, della scoperta. Simili quantità di spettatori si vedono, per esempio, agli incontri con grandi navigatori solitari ed esploratori come Soldini (prima di lui Fogar) o Reinhold Messner.

Oppure. Lo star system non ha risparmiato neanche i fotografi, e da questo punto di vista Steve McCurry è il Johnny Depp, il Bruce Springsteen della fotografia. Decine di documentari e trasmissioni su di lui, spesso ripiegati sulla storia della sua icona più celebre, quella sorta di nuova Gioconda moderna impersonata dalla ragazza afgana con gli occhi verdi. In questo senso difficile quantificare l’impatto che può aver avuto la partecipazione di McCurry alla trasmissione televisiva di Fabio Fazio solo due giorni prima, dove parlando delle sue avventure si annunciava la conferenza.

E se fosse invece che la vituperata pratica fotografica diffusa dal dilagare degli smartphone ha anche ricadute positive? La fotografia usata (dai giovani in particolare) principalmente come condivisione momentanea in rete di pizze e festicciole tra amici, senza alcuna consapevolezza visiva, senza una curiosità compositiva, senza narrazione né testimonianza, potrebbe essere per contro una nuova modalità di avvicinamento alla buona fotografia, non fosse altro che per la legge dei grandi numeri. Se un ragazzo ogni 500, a furia di smanettare sullo smartphone, si “impiglia” nella scoperta della magia fotografica e vuole approfondirla, è fatta.
Si passa così a postare foto più ambiziose sui siti dedicati (come Flickr, 500px, Pinterest, Instagram, ecc.) e poi si va avanti in questo “circolo virtuoso”.
In senso inverso, tra i professionisti l’uso dello smartphone non è più un tabù, basti dire che l’agenzia Magnum ha accolto nel suo mitico staff Michael Christopher Brown, fotografo che documenta guerre e rivoluzioni quasi esclusivamente con un iPhone e pubblica sulle testate di tutto il mondo. Dunque la convergenza di questi due “mondi fotografanti” è un dato di fatto.

Va detto che, in effetti, un crescente interesse verso la cultura fotografica da parte dei giovani italiani si nota. A prescindere dal “fenomeno McCurry”, i festival di fotografia, i corsi, i workshop, le mostre, vedono una partecipazione in aumento. Certo, non facciamoci facili illusioni, il nostro Paese è indietro e storicamente lontano dalla cultura fotografica, laddove non v’è quasi traccia di educazione visiva nelle scuole, tanto per dire.
Ma chi è contemporaneo, prima o poi, vuole conoscere e “usare” la contemporaneità. E la fotografia, checché se ne dica, è ancora il linguaggio più contemporaneo che ci sia.
Queste possibili ragioni e visioni – va da sé – possono intrecciarsi e coesistere in un mix variabile e comunque arduo da decifrare.

In tutto ciò – altra questione irrisolta – spicca l’abisso, la grande muraglia cinese, la frattura, la distanza siderale che separa il mondo dell’editoria italiano (con qualche rara eccezione) da un pubblico fotograficamente curioso.
Cresce l’interesse per la fotografia da una parte e decresce parallelamente la qualità fotografica media dei giornali.
Da una parte si organizza una mostra in più, dall’altra viene licenziato un photoeditor.
Da una parte Steve McCurry viene divinizzato dall’editoria, dall’altra la stessa editoria spesso riduce alla fame molti validissimi fotografi.
Da una parte si dice che la tecnologia, con l’impatto della rete, ha tolto mezzi alla carta stampata (e dunque alla fotografia) cambiando gli equilibri economici, ma dall’altra forse proprio l’impatto della tecnologia farà germogliare nuovo interesse verso la fotografia e il suo utilizzo.

Si tratta, insomma, di decidere cosa davvero vediamo nella foto d’apertura: povere vittime, in coda e bagnate, del marketing che tutto impone, fotografi compresi, oppure un formidabile potenziale nuovo e promettente, gravido di energie, di curiosità, di freschezza mentale, tutto da coltivare?

@ilfototipo