Cultura

“Fine del Pci e successivo semi-fallimento”. La prefazione di Serra al libro di Occhetto

E’ in libreria dal 25 settembre “La gioiosa macchina da guerra, veleni sogni e speranze della sinistra” (Editori Riuniti), scritto dal primo segretario del Pds Achille Occhetto, l’uomo della svolta della Bolognina che chiuse la storia del Pci. E l’uomo della prima sconfitta elettorale della sinistra contro Silvio Berlusconi nel 1994. Pubblichiamo in esclusiva la prefazione al libro firmata da Michele Serra.

Aprendo le pagine di questo libro sapevo che avrei rivissuto, attraverso le parole del suo primo artefice, quel dramma storico, politico e umano che è stata la fine del Partito comunista. Dramma al tempo stesso esiziale e vitale, di morte e di rinascita, del quale si è perduta memoria troppo velocemente. Pur essendo stato forse l’ultimo grande atto della politica italiana intesa come epopea collettiva, coinvolgente, lacerante, radicalmente diversa dal comodo “tifo” per un capo tipico dei partiti-persona degli ultimi vent’anni, “la svolta” dell’89 ha via via smarrito, nella memoria pubblica, la sua gravità e il suo spessore. Da un lato la sbrigativa ansia di attualità del sistema mediatico, dall’altro la lunga serie di incertezze e di delusioni che hanno segnato il cammino (parecchio inceppato) della sinistra post-comunista, hanno contribuito a far sbiadire, strada facendo, i forti contorni di quella crisi così accesa, febbrile, generosa, che spezzava identità personali, sacrificava mitologie di massa nella speranza, anzi nell’esigenza di un “nuovo inizio”.

Sapevo, dunque, che nelle parole di Achille Occhetto avrei rintracciato, con qualche emozione, le tappe di quel percorso, le sue ragioni, le cause del suo successivo semi-fallimento: a partire dalla liquidazione politica dello stesso Occhetto, tanto decisiva quanto può esserlo mettere alla porta il fondatore di un progetto, eppure quasi mai giudicata per questo suo significato non così recondito – accantonare un leader per accantonare le sue idee. Il declino politico dell’ultimo segretario del Pci, e del primo segretario del Partito democratico della sinistra, è poi finito nel calderone indistinto dei personalismi e della guerra per bande che ha preso (malamente) il posto del vecchio centralismo democratico; ma varrebbe la pena, per gli storici e più banalmente per chi si interessa alle sorti della sinistra italiana, sortire quella sconfitta personale dal vasto intrico delle tante altre, degli agguati e dei regolamenti di conti. Perché a essere congedato più o meno bruscamente da quel consesso non fu, oggettivamente, “uno dei tanti”, ma precisamente colui che prendendo il coraggio a due mani, e mettendoci faccia e nome, aveva ammainato la vecchia bandiera per issarne una nuova. Come avrebbe potuto, quel congedo quasi repentino dell’uomo della Bolognina, non rappresentare anche la parziale rinuncia alla svolta così come lui l’aveva concepita, non come la creazione di un post Pci ma come una inedita confederazione delle diverse anime della sinistra e del riformismo italiani? E quanto distratta è stata la pur vasta platea dei commentatori politici e dei giornalisti interessati ai fatti (me per primo, anche se tecnicamente non sono un addetto ai lavori) da non intendere la sconfitta politica di Occhetto come la sconfitta politica della svolta dell’89, niente di più, niente di meno? Come la vittoria dello strisciante, invincibile “continuismo” e conservatorismo della destra comunista contro quell’istinto di cambiamento, quella simpatia per i movimenti, quel primato del “sociale” sul “politico” da sempre guardato con diffidenza estrema dai vari politburo innamorati della calma piatta?

Questo dunque sapevo, aprendo questo libro: che leggendolo avrei avuto, da italiano di sinistra, qualche ragione di rimpianto per non avere speso – quando ancora serviva – qualche parola in più per difendere lo spirito dell’89 dal risucchio implacabile, colloso, della conservazione e del gattopardismo. Quello che non sapevo – perlomeno non in tale misura – è quanto la storia politica di Achille Occhetto, la sua biografia personale, siano paradigmatiche di ciò che fu, nel male ma soprattutto nel bene, il Pci. Il comunismo italiano. A partire da quell’ossimoro fondante – comunismo e libertà – che il Muro ha travolto nella sua caduta; ma anche da quel formidabile (e credo unico nel mondo) impasto di culture e di esperienze che ha “ingigantito” il Pci probabilmente al di là dei suoi meriti e certamente al di là della sua funzione di “Partito comunista”, convogliando sotto lo stesso tetto, oltre ai suoi inquilini naturali, i marxisti e gli operaisti, anche cattolici, liberali, crociani, borghesia radicale, antifascisti. (Il 35 per cento dei voti toccato nel 1976 non è spiegabile – ovviamente – in chiave “ideologica”: più di un terzo di italiani che votano comunista non voleva certo dire che più di un terzo degli italiani era comunista; voleva dire che nessuna altra concreta speranza di alternativa politica, trent’anni dopo la nascita della Repubblica, rimaneva in campo. Con buona pace di Bettino Craxi, di Ugo La Malfa, di tutti i riformismi veri o presunti, morti asfissiati nell’abbraccio soffocante con il potere democristiano e nella compromissione con l’eterna Italietta opportunista).

A questo proposito colpisce, nel racconto di Occhetto, la naturalezza, quasi l’inevitabilità con la quale si ripercorre l’approdo al Pci di un giovanissimo borghese torinese. Di quella Torino che l’autore descrive come «lo scenario spirituale, psicologico e politico» della sua formazione familiare e personale; e che anche nei giorni fatidici della svolta tornerà brevemente, intensamente a fare da quinta sentimentale al travaglio di quel suo figlio poi condotto dalla professione politica a girare l’Italia – Milano, Roma, Palermo – ma sempre rimasto legato a quell’imprinting intellettuale e culturale: l’antifascismo, l’azionismo, la Einaudi dove lavorava suo padre, gli scrittori amici di famiglia. Il Pci, dunque; il movimento operaio come “casa comune” del marxismo e della sua visione di classe, ma anche del radicalismo democratico dei borghesi antifascisti. Gramsci e Gobetti. L’Ordine nuovo, i cancelli della Fiat e gli intellettuali einaudiani «che picchiettavano furiosamente sulle loro macchine da scrivere». È come se, specie dopo il precoce fallimento del Partito d’azione, ogni altra speranza di dare sostanza alle premesse della Costituzione (più democrazia, più libertà, più giustizia sociale) fosse svanita; e come leva per il cambiamento, per la redenzione civile di un Paese reduce dal fascismo, dalle leggi razziali, da una guerra spaventosa, rimanesse soltanto, nel paesaggio politico nazionale, con i suoi operai, i suoi intellettuali, le sue masse istruite e disciplinate, l’opzione comunista. Il tradimento della borghesia italiana (meglio: la sua storica, disperante gracilità) ha ingrossato le fila del Pci oltre ogni “naturale” possibilità. Quando Occhetto racconta della sua acerba iniziazione politica nella Torino del dopoguerra, segnata da un molto insolito “doppio azionismo” – Azione cattolica e Partito d’azione – parla di qualcosa che fu comune a moltissimi italiani di quell’epoca, e delle successive: l’attrazione fatale per il Pci non tanto su presupposti dogmatici, quanto sulla ragionevole sensazione che nessun cambiamento strutturale dell’Italia ex fascista, ex papalina e mai compiutamente “moderna” potesse accadere senza o contro quel colosso politico (e quel colossale ossimoro) che fu il Pci. Nel quale un uomo come Giorgio Amendola poteva essere definito, senza nemmeno osare troppo, “liberal-stalinista”: tradotto in italiano, un figlio della migliore borghesia liberale che aveva trovato per unica e solida sponda, in questo complicato e bizzarro Paese, la sezione italiana della Terza Internazionale.

Tanto poté il fascismo: umiliare così in profondità le ambizioni democratiche e “moderniste” della esile borghesia italiana da spingerla, nella sua parte più vivace, meno rassegnata, meno compromessa, nel campo della “rivoluzione proletaria”. Borghese pure io, seppure più giovane quasi di una generazione, nel racconto di Occhetto ho potuto riconoscere non poche affinità con la mia spuria, contraddittoria, fertile formazione politica. Posso dire di essere uno dei tanti italiani (milioni) che diventarono comunisti non per coscienza di classe, non per convinzione ideologica, ma per il riconoscimento quasi fisiologico di quella parte politica come la sola “altra” rispetto alla meschinità piccolo-borghese, al conformismo, alla paura atavica di qualunque novità. Come quel partito abbia retto per così tanti anni la sua pluralità di anime (altro che “doppiezza togliattiana”: era triplezza, quadruplezza!) senza renderne conto neppure a se stesso, senza dilaniarsi o implodere, reggendo il deplorevole rapporto di vassallaggio con Mosca e insieme un animus democratico profondo, discutendo dei nuovi fermenti sociali (il femminismo, i nuovi diritti, la libertà sessuale) fino a esserne coprotagonista, e al tempo stesso affidandosi a un suo clero interno occhiuto, moralista e ipocrita, è un mistero ancora da chiarire. Occhetto ne fa cenno in più di un passaggio di questo libro, specie quando, di fronte alla statua di Giordano Bruno, rilegge criticamente, amaramente la natura “chiesastica” del Pci come illusoria necessità di inchinarsi a una “verità superiore”.

Ma per chiarirla davvero, la storia del Pci, come contenitore ricettivo ma abnorme di tutta o quasi la sinistra italiana, bisognerebbe che “gli altri”, i protagonisti di tutti i riformismi italiani falliti, minoritari o velleitari, si chiedessero come hanno potuto chiudere i battenti, loro, con così poco clamore, senza neppure la pena e lo scandalo di una “svolta”, per semplice estinzione, per inconsistenza, per insipienza. O peggio, travolti dal malaffare. Sono loro – a partire dalla sfortunata borghesia azionista – che hanno fatto la fortuna, anche senza volerlo, del Partito comunista italiano. Rifacendosi (anche) alle sue frastagliate, complesse radici politiche e culturali, Occhetto ci aiuta infine a rintracciare la vera, profonda ragione storica della svolta. Storica: dunque non frettolosa e non improvvisata, come alcuni, non si capisce bene perché, gli imputarono ai tempi della Bolognina. L’idea – e al tempo stesso la necessità stringente – era riunire le diverse matrici culturali e ideali del progressismo italiano; e per farlo, mutare in profondità la forma-partito, facendone uno strumento fortemente permeabile dai movimenti, dalle associazioni, dalle pulsioni di una società in febbrile mutazione. La stagione dell’Ulivo gli pare la meno distante da questo suo “sogno”. Specie per quanto riguarda il secondo aspetto – un nuovo patto tra “partito” e cittadini, tra politica e società – che è, con il senno di poi, il più tradito, quello che la restaurazione degli apparati ha colpito e affondato.

Ne siano prova gli ultimi atti della politica italiana, con la nascita di un governo di sedicenti “larghe intese” che ha di fatto avocato al Palazzo ogni mossa e ogni decisione, quasi abrogando un esito elettorale irrequieto, ipermovimentista e anti-istituzionale. Certo difficile da tradurre in una soluzione di governo: ma non riconducibile in alcun modo, questo no, al rinserrarsi patologico, impaurito, di due partiti storicamente avversi (e di due Italie non conciliabili) dentro le stanze del governo. Con il dovuto rispetto per il presidente Napolitano, un vecchio abitante della sinistra come me (e, ben più autorevolmente, come Occhetto) non può non leggere in questa fase una significativa vittoria della “destra comunista”, che al rischio e al mutamento oppone da sempre, con supposta maggiore saggezza, supposto maggiore realismo, una compassata diffidenza: tutto, purché niente davvero cambi. Ma nessuna svolta, non solo quella della Bolognina, avrebbe potuto sortire da tanta, micidiale prudenza. A Occhetto l’intera sinistra italiana deve riconoscenza per avere preferito la sortita alla trincea, il rischio all’attesa, il movimento alla stasi. In quel “movimentismo” che all’epoca gli veniva imputato come un vezzo c’è il tratto generoso, vitale della scelta come necessità. Quasi come obbligo etico: come se non scegliere equivalesse a tradire un mandato, e infine a tradire il potere stesso.

Quanto al potere, specie nella prima parte delle sue riflessioni l’autore offre un sorprendente (per la inusuale sincerità) ritratto del “sé politico”. Sul bisogno di approvazione del leader, la necessità dell’applauso, la continua e difficile verifica del proprio essere nel giusto e del proprio essere amato, Occhetto scrive cose profonde e non necessariamente lusinghiere per se stesso: l’età e il distacco dalla politica attiva gli hanno evidentemente consentito una libertà di introspezione non comune in chi ha fatto, di mestiere, “il capo”. Ne sortisce il quasi-autoritratto di una personalità impetuosa e vibratile, non “tutta di un pezzo” come vorrebbe la retorica del comando e quasi femmineo nella necessità di trovare, nei processi razionali, conferme dettate dalla sensibilità, dal contesto, dagli affetti, dai rapporti interpersonali. Si intuisce che, al di là dei contrasti politici, anche questa maniera emotiva di vivere la politica e il potere gli abbia attirato diffidenze e inimicizie. Esiste una codificazione del potere, dei suoi modi e dei suoi riti, che pare l’eterna ripetizione della vita militare, delle sue gerarchie rigorose, delle sue impettite certezze. (A proposito: “gioiosa macchina da guerra” fu una battuta giocosa, una parodia bellica: è significativo che a quella battuta sia stato inchiodato Occhetto dai suoi detrattori e dalla vulgata mediatica).

L’uomo che accompagnò il Pci alla morte nella speranza (tutt’ora molto in bilico) di far rinascere la sinistra italiana non aveva quel cipiglio e non apparteneva (più) a quel mondo, così importante e sedimentato ma anche così vecchio e oramai inefficace. È stato ed è un uomo carico di dubbi, pienamente al corrente delle proprie contraddizioni a partire da quella, più volte evocata, espressa dal potente, impossibile, amatissimo ossimoro “comunismo e libertà”. Viene da pensare, finito di leggere questo libro, che ci voleva un insicuro, ci voleva un emotivo, ci voleva un uomo contraddittorio per tagliare certi nodi, sciogliere certi grumi, certe durezze, e dare voce, infine, alle insicurezze, ai dubbi, alle speranze e ai presagi (di morte, di vita) di milioni di suoi compagni. Non ne ha ricevuto, in cambio, quanto avrebbe meritato. Ne fa cenno quando scrive di un «bilancio passivo tra il bene elargito e il male ricevuto». Credo che sbagli. Molti dei semi che la sua svolta ha gettato nel campo ipotetico del futuro devono ancora nascere. È troppo presto per i bilanci. La Bolognina è una pagina scritta nel secolo scorso, ma per i lettori di adesso e di domani. Si tratta solo di aspettare, compagno Akel, che tutto ricominci, e qualcosa, finalmente, finisca.

di Michele Serra