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Bo Xilai e la strategia B.: lettera per riabilitarsi

In molti hanno notato la somiglianza. Il volto tirato di Berlusconi, la sua capigliatura e – soprattutto – le stempiature, ricordano il viso di cera del “grande timoniere” Mao Zedong. E oggi in Cina anche Bo Xilai ha mandato un “messaggio”.

Domenica verrà resa nota la sentenza del processo per corruzione, appropriazione indebita e abuso di potere. Ma l’ex astro nascente ormai espulso dal Politburo, non riesce ad aspettare. In una lettera alla cerchia ristretta di familiari e sostenitori si dice convinto che “un giorno” il suo nome verrà riabilitato. “Aspetterò tranquillamente in prigione”, ha scritto colui che viene considerato il leader delle correnti neomaoiste del Partito. E ancora: “Mio padre è stato incarcerato più volte. Seguirò i suoi passi”. La Cina comunista non è l’Italia cristiana e democratica.

Il padre di Bo, morto nel 2007 all’età di 98 anni, era uno degli “Otto Immortali”, i più longevi tra i fondatori della Repubblica popolare. La madre si suicidò durante la Rivoluzione culturale, quando anche il marito se la vide brutta e fu costretto alla rieducazione in campagna. La moglie è stata condannata alla pena di morte “sospesa”, ovvero all’ergastolo, per l’omicidio di un cittadino inglese che, pare, gestiva gli affari di famiglia. L’avrebbe fatto per proteggere il figlio, Bo Guagua, che studiava negli Usa tra lussi e stravizi.

È il carattere, semmai, che accomuna i due personaggi politici. La figura di Bo spiccava tra i grigi quadri del Partito con i suoi completi Armani. Carisma e una tendenza innata al populismo. La megalopoli che amministrava vantava un tasso di crescita del 16, 4 % e un disavanzo di oltre 10 miliardi di euro. Aveva debellato la mafia, ma aveva riempito la città di polizia e telecamere che utilizzava – pare – per ricattare potenziali avversari. La sua attenzione era rivolta al “popolo” a cui parlava con semplicità, attraverso slogan e citazioni del Libretto Rosso. Ma la vera differenza con B. è che Bo si dichiara sì innocente, ma non accusa.

il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2013