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Megadeth, il nuovo ‘Super Collider’ è un favore ai Metallica

Poco prima di mandare il nuovo disco dei Megadeth in stampa, Dave Mustaine deve aver pensato che la sua vita (artistica) può essere riassunta in un grande scherzo: se solo potesse, probabilmente riavvolgerebbe di corsa il nastro del tempo e tornerebbe nei Metallica. Non fraintendetemi: adoro i Megadeth e – per quei pochi che gliene freghi qualcosa – sono tra i miei gruppi preferiti di sempre ma è proprio quando si è innamorati dei propri idoli che viene naturale non perdonargli (quasi) nulla.

Eh già, perché “Super Collider” non è una di quelle scappatelle che poi magari fortifica una relazione: é – per farla breve – un disco insipido, che così brutto non si sentiva forse dai tempi di “Risk” (1999) o ad esser buoni “The World Needs A Hero” (2002): il primo segnò l’abbandono di Marty Friedman, il secondo lo scioglimento temporaneo.

Se poi volessimo fare il salto della quaglia, troverebbe corrispondenza in “Load” e “Reload” se non addirittura “St. Anger”. Parliamo ovviamente dei nemici ed ex-colleghi Metallica, che con il solo “Black Album” continuano a vendere, per inerzia, comunque di più: la settimana scorsa i quattro di San Francisco hanno vinto di misura per 1737 copie, contro le 1717 dei Megadeth.

Eppure Dave Mustaine é co-autore di buona parte della produzione dei primi album dei ‘Tallica: “Seek & Destroy”, “The Four Horsemen”, “Ride The Lightning” sono – per citare alcune canzoni – a lui riconducibili. Questo a testimonianza di un genio, specie chitarristico, che non è veramente secondo a nessuno: se Dave Mustaine é in città, allora ecco che Kirk Hammett dorme sul divano di sua sponte.

Nati rabbiosamente in risposta alla cacciata del loro leader, per molto tempo i Megadeth hanno rappresentato non una semplice alternativa ma una band in grado di far vacillare, artisticamente, la fedeltà di molti: da “Peace Sells..But Who’s Buying?” (1986) a “Countdown To Extinction” (1992) la loro produzione ha risposta colpo su colpo alla straordinaria cinquina di James Hetfield e Lars Ulrich e un disco come “Rust In Peace” (1990) non ha nulla da invidiare a “Master Of Puppets” (1986).

Ai Megadeth é mancato quell’album liminale, a metà tra il rock ed il metal, che tanta fortuna ha invece portato ai Metallica: opera del labor limae spregiudicato del produttore Bob Rock, la lunga mano invadente croce e delizia dei fan della band.

Così (tanto per) i Megadeth tirano giù un disco che per troppi versi somiglia ad un paté pieno di grumi: già dal singolo apripista omonimo s’era capito che tirava un venticello niente male, di quelli che poi torni a casa con il collo indolensito: meglio invece coprirsi e andare oltre. L’apertura confortante di “Kingmaker” illude, forse anche per il richiamo lampante a “Children Of The Grave” dei Black Sabbath: ma è solo una goccia in un oceano. L’album si sviluppa in un turbinio di idee confuse, spesso male accorpate, che vorrebbero mostrare i denti ma abbaiano senza mordere. Il duetto con David Dreiman in “Dance In The Rain”, già leader dei Disturbed e ora anche dei Device, si lascia ascoltare senza rapire: ricorda per certi versi il contributo (inutile) di Cristina Scabbia dei Lacuna Coil nel rifacimento (altra assurdità) del classico “A Tout Le Monde”.

A rubare la scena é paradossalmente la canonicissima “Forget To Remember”: a dimostrazione che, volendo, Dave Mustaine ha tutte le carte in regola per scrivere un brano hard-rock moderno, pur partendo per la tangente rispetto al sound tipico dei Megadeth. In fondo al disco, la cover di “Cold Sweat” dei Thin Lizzy si dimostra un esperimento riuscito: forse l’unico.

Il prossimo passo? Magari una reunion coi Metallica: molti pagherebbero oro, pochi altri si spenderebbero per lasciare le cose così come sono. Anche con il buon vecchio Hammett a bordo: parola di Dave Mustaine.