Cultura

Manoscritti nel cassetto 33: B-Loved (di P.D. Jenny)

Chiedo scusa nuovamente. Luglio è stato funestato dalla morte del mio cane, per buona parte del mese di agosto non potevo connettermi: al mio paese, Cortona, dove ho trascorso le vacanze, le chiavette o non vanno o sono di una lentezza esasperante. (Poi, tornato a casa, oltreché a lavorare mi son messo a scrivere…).
Comunque. Cercherò di postare due manoscritti a settimana, ora. E buona lettura (reb)

 

B-Loved

di P.D. Jenny

 

PROLOGO

Ancora prima di sentire quel piccolo rumore seppe che erano entrati.

Spense la pila, il corpo in tensione.

Poi un fruscio, inequivocabile.

Si appiattì contro la parete, dietro a uno scaffale con casse di materiale informatico. La luce d’emergenza rischiarava solo qualche metro attorno alla porta, ma lassù era buio.

Fuori dovevano esserci gli altri tre in attesa che venisse aperta la porta del retro. Se qualcosa fosse andato storto il suo cellulare avrebbe dovuto vibrare, erano ancora là fuori o li avevano colti di sorpresa? Li avevano presi?

Raf aveva promesso che per un po’ non avrebbero fatto altri colpi, quattro in un mese erano sufficienti – erano già troppi, aveva obiettato – ancora uno, quel magazzino, il giorno dei nuovi arrivi, avrebbero caricato solo una ventina di portatili di lusso e via. E poi se ne sarebbero stati tranquilli per un po’. Anzi avrebbero cambiato aria, sarebbero andati a Cète, al mare, o forse fino in Spagna. Tutti insieme. Era stato quello l’argomento decisivo.

Il mare, la Spagna.

Andare via da Marsiglia, per uno o due mesi, con i ragazzi, con Raf, come una famiglia felice. Una famiglia di ladri fortunati, pareva magnifico, dal momento che non ne aveva altre.

Doveva solo entrare dal condotto dell’aria sul tetto e aprire loro la porta dall’interno, un’ultima volta, dieci minuti di lavoro in cambio della felicità.

Di nuovo uno strascichio, più lungo e chiaro stavolta.

Chiunque fosse cercava di non fare rumore. Non era un custode, intuì.

Ed era proprio sotto il suo nascondiglio, sotto il ballatoio, vicino alla scala.

Un raggio rosso guizzò sul pavimento, spazzò le casse di merci impilate, percorse il montacarichi nel mezzo, con i bracci che arrivavano quasi al piano superiore, corse sul soffitto.

Non era solo. Erano in due.

Uno stava per salire di sopra, Due sarebbe rimasto al piano inferiore per sorvegliare l’uscita.

Una goccia di sudore gelido corse lungo la fronte e sulla palpebra. Strinse gli occhi senza muovere un muscolo. L’unica via di fuga era il condotto dell’aria, dall’altra parte del ballatoio, verso la parete ad est. Non c’era tempo da perdere, ma non riusciva a muoversi.

Sentì un battere ritmico e capì che erano i suoi denti.

Si asciugò le mani sui pantaloni della tuta, si lasciò scivolare sui talloni e abbassò la testa, silenziosamente respirò a fondo, tendendo spasmodicamente le orecchie.

I due agenti si divisero, Uno fece un cenno d’assenso a Due che andò verso la porta dell’ufficio. Provò la maniglia, la porta era chiusa a chiave. Scivolò lungo la parete attento a non fare rumore. Li avrebbero presi questa volta.

Si trattava di giovani non schedati, ladri adolescenti, secondo l’informatore, e nessuno voleva che la cosa si trasformasse in un bagno di sangue. Le armi dovevano restare nella fondina, gli ordini erano chiari, niente sparatorie da far west e cadaveri che facessero strillare la stampa sulla crudeltà delle forze dell’ordine.

Ma andavano fermati. Piccoli bastardi.

Erano là dentro e forse erano armati, si disse nervoso, di quello la stampa non teneva conto.

Il suo compagno fece un cenno con la testa e Due guardò in su verso il ballatoio. Le sale di rappresentanza, doveva andare là sopra? Uno confermò.

Lui sospirò. Non capiva perché non fossero entrati accendendo le luci e facendo un gran baccano, quelli erano in trappola, no? Fuori c’era la volante, le uscite erano sorvegliate, cosa potevano fare? Come sarebbero potuti uscire, volando?

E fu mentre formulava questo pensiero che un rumore metallico gli fece alzare gli occhi, un’ombra uscita dal nulla balzò oltre la ringhiera, atterrando a quattro zampe sulla pila di cassoni, poi si raccolse come un gatto e saltò verso il montacarichi, si afferrò a una delle rotaie verticali, s’inarcò come un saltatore con l’asta, la testa in giù. Le gambe descrissero un’ellisse impossibile, le ginocchia si piegarono e con una spinta delle reni il ragazzo superò la ringhiera del ballatoio, parve rimbalzare in su, sullo scaffale di ferro e scomparve nell’oscurità del soffitto.

Cazzo! Corri, cazzo cazzo! – Urlò Uno puntando gli infrarossi sul ballatoio – È uscito dal condotto dell’aria!

Due si lanciò verso le scale.

Non da là… dalla scala antincendio!

Certo, non sarebbero mai passati dallo stretto cunicolo dell’aria.

I due agenti spinsero la porta a vetri e a balzi risalirono la scala di emergenza esterna, che finiva però a due metri dal tetto. Uno, più agile, si issò sui pali di sostegno, mentre Due abbaiava alla radio. Quindi anche lui si inerpicò ansando e guadagnò la cima.

Rimasero là qualche istante interdetti scrutando nel buio.

Laggiù! – Gridò Due. L’ombra correva sul tetto del magazzino, un essere magrissimo, un nulla in movimento che sparì dietro la sagoma dell’abbaino. Uno estrasse la pistola dalla fondina, fece fuoco in aria e subito la volante accese la sirena. I due agenti corsero, girarono attorno all’abbaino e non videro nessuno. Si girarono, niente. Pareva evaporato. Giunti al limite del tetto si fermarono. L’edificio accanto, un deposito chiuso, era a vari metri di distanza. Sotto c’erano tre piani e il cortile asfaltato.

Si guardarono intorno, era saltato di là? Quei due depositi erano gli unici edifici vicini. Più in là oltre un campo abbandonato che sembrava una palude c’era solo un enorme deposito di rottami, la strada a quattro corsie e il mare. Il fuggitivo non aveva scampo, si trattava solo di evitare la tragedia.

La figura riapparve correndo piegata sul tetto dello stabile di fronte, oltre il quale non c’era niente, il vuoto, la notte.

Uno fece fuoco in aria un’altra volta, ma lui non parve accorgersene, giunse al parapetto, vi salì sopra e rimase accovacciato come un animale.

Ma che diavolo fa? – Disse Due.

Il ladro si alzò in piedi e per alcuni secondi rimase dritto, silhouette nera contro il cielo chiaro di nubi. Poi, senza guardarsi indietro, si lanciò nel vuoto.

 

1. CAPITOLO

Quello che vidi appena aprii gli occhi fu una macchia scura.

Mossi la bocca e fu come passare una grattugia sulla guancia ferita. Ero sull’asfalto, fra carcasse arrugginite e lamiere contorte. Lo zigomo, la faccia mi bruciavano terribilmente. Distesi la gamba, quella che ancora funzionava.

Non ero caduta bene. Anche se il cassonetto colmo di imballaggi aveva attutito il colpo, ero poi rimbalzata malamente sulla strada. La sirena della volante pareva uscire da sottoterra, lacerante. Stavano arrivando. Mi ero tirata in piedi e ero corsa attraverso il campo di stoppie fino alla discarica. Ero scivolata sotto la rete strisciando in mezzo a quella distesa infernale di metalli abbandonati. Là, sotto una portiera di camion ero rimasta acquattata per ore.

I poliziotti dovevano essere ancora là in giro. I miei amici erano svaniti nel nulla, non mi avevano avvisata, forse mi stavano cercando, forse erano fuggiti.

Era ancora notte fonda, non sapevo come sarei uscita da là e quella macchia scura, quella, era il mondo.

Feci di nuovo il numero di Raf. Spento o non raggiungibile.

Composi un altro numero, e questa volta qualcuno rispose. Poche parole, sorpresa, incredulità, presto non c’è tempo: diedi l’indirizzo e chiusi la comunicazione.

Mi misi in piedi e zoppicando attraversai il deposito di rottami, sgusciai fuori dalla rete e fui sulla strada. Troppa illuminazione, mi tirai verso uno spiazzo d’erba secca e fango, immerso nell’ombra, dall’altra parte un viale trafficato. Saltellando e trascinando il piede giunsi fino all’incrocio ed attesi, nascosta dietro un cartellone pubblicitario.

Dopo mezzora un’auto lampeggiò i fari e accostò, aprii la portiera.

Era lei, con i suoi riccioli rossi ondeggianti sulle spalle, la faccia triangolare impertinente. Riconoscevo quella giacchetta di pelle e l’espressione furiosa.

Spostiamoci da qui – balzai nell’auto – prendi la corsia di destra, poi gira al distributore e vai verso l’Estaque. – Senza una parola riavviò il motore.

Le gettai un’occhiata, mi faceva bene vederla anche se aveva l’aria piuttosto arrabbiata.

La mano sul cambio, Céline guidava con la solita aggressività.

Giunte vicino all’Estaque, qualche chilometro ad est di Marsiglia, ci fermammo in una piazzola di sosta di fronte al mare. L’alba stava sorgendo sull’acqua tranquilla.

Céline spense il motore.

Hai del sangue sulla faccia. – Distolse subito lo sguardo.

Mi toccai la fronte, lo zigomo. Colava ancora, sui polpastrelli era umido e appiccicoso. La maglietta era impregnata di sudore e sangue, mi detersi l’occhio e sentii i capelli rigidi impiastricciati.

Ti porto all’ospedale.

Niente ospedale.

Allora andiamo a casa mia.

Non so, aspettiamo un momento – volevo che mi passasse la nausea.

Che è successo, perché eri là?

Niente.

Céline si strofinò la fronte.

Eri con Raf. Stavate facendo un colpo.

Soffiai fuori un po’ d’aria.

Quel verso significa che qualcosa non è andato bene? – Commentò lei sarcastica.

È arrivata la polizia. – Masticai controvoglia.

Mentre eri dentro? – Assentii e lei continuò – E Raf?

Non lo so, erano fuori, doveva avvertirmi ma… .

Ti hanno lasciata sola! – Mi guardò incredula – E come sei riuscita a uscire, ti sei…

Dal tetto. Poi sono saltata, mi sono nascosta. – Feci un gesto vago. Mi muovevo con precauzione un po’ rigida.

Ti sei buttata dal tetto? – Non girai la faccia sentendo che mi guardava sbigottita – E adesso ti stanno cercando. Ma perché? La polizia… – rinunciò a proseguire. Aveva già tutte le risposte. Non ci vedevamo da mesi ma lei sapeva di Raf e tutto il resto.

Senti, non volevo tirarti in questa storia, dovevo solo togliermi da là e ora tante grazie ma è meglio se vado – aprii la portiera, ma Céline mi fermò.

Sei pazza? Secondo te io ti lascio qui in queste condizioni? Ma si può sapere che cos’hai nella testa? Scompari senza dire niente, non rispondi alle chiamate, per sapere di te devo chiedere ai peggiori esseri… – cercò di calmarsi – non so che ti è successo in questi mesi, ma anche tuo padre…

Che c’entra mio padre! – Reagii girandomi, ma subito sentii un dolore alla gamba. Me la tastai, premendo per capire se fosse solo una botta.

Céline teneva gli occhi sul disco arancio che sorgeva sul mare, percorso da brividi luminosi. Richiami striduli rompevano il silenzio, i gabbiani si tuffavano nelle onde che iniziavano a respirare ritmicamente nel primo mattino. Non parlavamo.

Eravamo state l’ala ribelle del collegio, inseparabili, finché le nostre strade si erano divise. Ma lei ancora era la sola persona sulla quale potevo contare.

Céline accese due sigarette e me ne porse una. Aspirai e socchiusi gli occhi per il fumo. Subito mi girò la testa, come se fossi in procinto di svenire. Lei stava cercando le parole, quelle che non avevo voglia di sentire. Per quanto mi riguardava in quel momento c’era solo una cosa che volevo sapere:

Sai dove può essere lui? – Mormorai con gli occhi fissi al mare.

Céline si morse le labbra trattenendosi a stento. Poi parlò calma:

No, non lo so. Ma sai cosa penso? Penso che se lo chiedi a me significa che già sai che ti ha piantata in asso. Guardati Linda! – Continuò più concitata – Guarda quello che sei diventata, quello che lui ti ha fatto diventare… hai diciassette anni dio mio, dovresti spassartela con gli amici, la notte dovresti andare a ballare, non a svaligiare magazzini per un delinquente. – Ecco, erano queste le parole che non volevo sentire. Céline aveva aspettato mesi per dirmele, e ora non si sarebbe fermata.

Tu non sei così, non hai bisogno di rubare, credi di vivere in un film ma non lo è, non lo è più. E hai dimenticato che ci sono persone che ci tengono davvero a te.

Tipo?

Tu non sei niente per lui – continuò ignorandomi – credevi di poter essere la sua ragazza, che un giorno si sarebbe accorto di te? Ti è andato il cervello fuori asse. Raf ti ha usata, come fa sempre. E tu gli hai creduto, così come credevi che lui sarebbe stato pronto a salvarti se qualcosa fosse andato storto…

C’è stato un intoppo.

Un intoppo? Potevano arrestarti, potevi morire!

Ma non mi hanno preso – sogghignai, stancamente.

Certo, sei la migliore, sei un asso… tu passi dappertutto! Per questo, e solo per questo lui ti teneva con sé.

No, lei non poteva capire, lei non lo conosceva. Céline si zittì per quasi un minuto, poi riprese con calma.

Non lo hai chiamato?

Annuii.

E?

Fuori servizio.

E dove pensi che fosse Raf quando sono entrati gli sbirri e hai dovuto buttarti di sotto?

Non lo sapevo e non mi importava. Mi importava solo sapere dove potevo trovarlo ora. Celine me lo lesse negli occhi.

Se n’è andato, Linda. – Lo disse scandendo bene le parole – E non tornerà per molto tempo. È un informatore. Un ladro e un infame. Lo sanno tutti nel giro, per questo lavora solo con i novellini. Ha fatto lui la soffiata. Per dare un capro espiatorio ai poliziotti. La tua parola contro la sua, e poi lui è protetto.

Mentiva. Celine non sapeva quello che diceva. Non aveva mai sopportato Raf, pensava che lui mi avesse convinto a lasciare il collegio, ma era una decisione che avevo preso da sola.E ora lui era sparito.

(…)

 

Ipotesi di quarta di copertina

L’acqua ha memoria dei ragazzi morti? 

Dev’essere così, perché un’epidemia di suicidi piaga la città nel cuore delle Alpi, tutti adolescenti come Belinda, diciassettenne in fuga da un passato turbolento.

L’acqua li chiama al sonno della morte. O forse è colpa dei serpenti umani, bellissimi e crudeli, che vivono negli abissi dei laghi, gli Anguani.

Le leggende possono spiegare la loro ferocia, e il loro legame con la missione dei Silvani, biondi centauri dai corpi di cervo e Guardiani dei boschi, che in veste umana scorrazzano su rombanti motociclette. Ma non dicono che il loro Patto, vitale per la protezione degli umani, può essere rotto per una ragazza. Se ad amarla è uno di loro. Nel caso di Belinda ad amarla sono in due.

 

Biografia 

P.D. Jenny è lo pseudonimo di due sorelle, che vivono a Trento, nel cuore delle Dolomiti magiche e pericolose dove, come tutti sanno, la concentrazione di esseri soprannaturali è fra le più alte del pianeta. 

pdsmiths01@gmail.com