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Usa, quando il Presidente Nixon fu costretto a dimettersi

L’8 agosto 1974 il repubblicano Richard Nixon si trova obbligato a lasciare il suo incarico in seguito allo scandalo Watergate: non era mai accaduto prima, non è più successo dopo di lui.

Nixon è un politico privo di carisma per quanto abile e ambizioso. Nel 1968 la vittoria che gli consegna il primo mandato alla Casa Bianca spicca per essere stata particolarmente dispendiosa, straordinariamente attenta all’uso dei media e alle indagini sui comportamenti elettorali.

La disastrosa guerra in Vietnam condotta sotto la presidenza del democratico Lyndon Johnson, unitamente allo scarso appeal del suo contendente – il democratico Hubert Humphrey – sono altri due aspetti che favoriscono la vittoria repubblicana.

Nel quadriennio 1969-72 turbolente trasformazioni interne e internazionali accompagnano la politica di Nixon, fondamentalmente conservatrice, con inattese virate verso il centro o su temi sociali, spostamenti legati al fiuto politico del presidente e alle analisi di mercato.

Nel 1972 la rielezione di Nixon contro il democratico George McGovern matura con un consenso vasto raggiungendo il 60,7% dei suffragi e mettendo tra sé e il rivale oltre 22 punti di distanza.

Su questa indiscutibile vittoria si appunta una macchia.

Nel giugno del 1972, con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale di novembre, 5 uomini sono tratti in arresto nell’edificio del Watergate, dove è installata la sede del comitato del Partito democratico. I 5 sono in possesso di sofisticate microapparecchiature di trasmissione, quelle che nel gergo spionistico conosciamo come cimici che dovevano servire a intercettare informazioni compromettenti contro McGovern e a raccogliere altre notizie utili per la campagna repubblicana. Una spy story che nei primi tempi appare priva di conseguenze, nonostante uno dei 5 arrestati sia James McCord jr, ex agente Cia, membro della sicurezza del Comitato per la rielezione di Nixon.

Durante la campagna elettorale i democratici non riescono mediaticamente a sfruttare il caso: le strategie di comunicazione repubblicane, favorite dalla combinazione tra media e intelligence, sono superiori alla forza della verità.

Il presidente resta inizialmente fuori dallo scandalo, ma ne viene trascinato nel marzo 1973 quando comincia il processo ai 5 arrestati ai quali si sono aggiunti altri 2 imputati. A questo punto la Corte Suprema chiede i materiali delle registrazioni al presidente che si rifiuta, appellandosi al privilegio dell’Esecutivo, ponendosi apertamente sopra la legge e infrangendo – anche formalmente – il principio di parità fra i cittadini. Messo alle strette, Nixon invierà dei nastri purgati, ma con contenuti sufficienti a incriminarlo.

Dal processo affiora una situazione tanto sorprendente quanto grave per l’estensione dei reati perpetrati: Nixon e i suoi collaboratori non hanno spiato solo McGovern, ma una serie di esponenti democratici.

Nixon ha utilizzato strutture pubbliche e denaro pubblico per le sue finalità, arrivando a impiegare l’Fbi per organizzare campagne di disinformazione e di diffamazione degli avversari politici. Ma è proprio dalla Fbi che si spezza l’organizzazione occulta della macchina di potere nixoniana. Il numero due della Federal Bureau of Investigation, William Mark Felt, comincia con circospezione a passare informazioni a due giornalisti del “Washington Post” – Bob Woodward e Carl Bernstein – che, inizialmente ignorati dalle altre testate, avevano cominciato a indagare sul caso. Con il tempo, gli articoli d’inchiesta dei due giornalisti contribuiscono in maniera rilevante a smuovere il sistema informativo e a mutare l’orientamento dell’opinione pubblica.   

Forte il discredito che si abbatte su Nixon che ha compiuto reati nella fase dello spionaggio e, successivamente, per coprire le azioni dei suoi uomini.

La questione arriva in Parlamento. Sia alla Camera sia al Senato la maggioranza è democratica, ma sono gli stessi deputati repubblicani ad abbandonarlo, rendendo sicura e ampia la messa in stato d’accusa (impeachment) del presidente.

A questo punto Nixon è costretto a dimettersi per evitare l’incriminazione. Al suo posto gli subentra il vicepresidente Gerald Ford, un conservatore onesto,  chiamato dai giornali Mr Clean (signor Pulito).

Subito dopo le dimissioni, il settimanale “Newsweek” commissiona un sondaggio all’istituto Gallup dal quale risulta che il 79% degli statunitensi ritiene che Nixon abbia fatto bene a dimettersi. Gli stessi intervistati ritengono che gli avversari del presidente non abbiano esagerato nel metterlo in cattiva luce. A sorpresa però, il 55% ritiene che l’inchiesta su Nixon non debba proseguire. Di lì a poco il neopresidente Ford concede a Nixon il perdono presidenziale, strumento previsto dalle prerogative della Casa Bianca, che evita al vecchio presidente di finire davanti al tribunale.

La vicenda si presta a una doppia lettura: da un lato la forza del giornalismo indipendente che stimola l’azione giudiziaria per punire i reati e ripristinare la legalità. Anche il grande economista John Kenneth Galbraith – intervistato nell’agosto del ’74 dal settimanale “Panorama” – evidenzia il rilievo morale della vicenda e legge la fine di Nixon come un avvertimento per i suoi successori.

Dall’altro lato, lo scandalo Watergate accresce la delegittimazione verso le istituzioni (complici anche la crisi economica e la sconfitta in Vietnam) che né l’ultima parte del mandato presidenziale di Ford, né l’avvento nel 1976 del presidente democratico Jimmy Carter riusciranno a rilanciare.