Cultura

Manoscritti nel cassetto 32: racconti di pesca (Nicholas Guirich)

Scusate i ritardi nel postare, per smaltire i manoscritti nel cassetto dovrei farmi vivo, qui, almeno due volte a settimana. Ma nei giorni scorsi non avevo la minima voglia di pensare alle cose editoriali mie o degli altri. Per esempio. Un mattino ricevo per posta il rifiuto a un mio giallo di Gallimard. Non ci avevo mai provato, io, a puntare così in alto (l’ho spedito senza nemmeno dirlo alla mia agente), però una bocciatura è sempre una bocciatura e, solitamente, ti rovina la giornata. Invece me ne son dimenticato in fretta: pensavo al mio cane, che stava male, malissimo. L’ho sepolto ieri e adesso andrò a cercare il libro di Carlo Cassola, “L’uomo e il cane”, che leggerò tra qualche giorno. Buone cose e buone ferie e, naturalmente, buona lettura con questo racconto.

Ombre in controluce sull’argento dell’acqua

di Nicholas Guirich

Gesù disse a Simone : ” Non temere; d’ ora in poi sarai pescatore di uomini “.

VANGELO DI LUCA 5, 1-11

Introduzione : PRESO QUALCOSA? 

  1. LO ZIO

  2. L’ ABC

  3. DOVE VOLANO LE AQUILE

  4. SQUALI D’AFRICA

  5. LA GOBBA

  6. LA ZUCHERA

  7. CAROTE DA PINZIMONIO

  8. A PESCA DA BABBO NATALE

  9. W I BERSAGLIERI

  10. ZANZARE COME ELICOTTERI

  11. GIORGIO C

  12. ANNI DIVERSI

  13. MANI DI FATA

  14. LA QUOTA ROSA

  15. PESCA COL MORTO


LO ZIO

Credo che mio zio sia stato l’uomo più buono del mondo; almeno secondo me.

Questo non ha niente a che vedere con i suoi trascorsi giovanili in seminario, dettati più dalle esigenze familiari di avere una bocca in meno da sfamare che da una vocazione genuina.

Non era caritatevole, né particolarmente pio, ma possedeva una naturale propensione verso il prossimo fatta di gestualità e silenzi partecipi.

L’intesa non era mai ricercata, era più un’ affinità sancita da poche parole e rare frasi, e l’ amicizia che ne nasceva valeva per sempre.

Il primo, vivido ricordo che ho di lui sono le sue grandi mani dalle dita lunghe e forti, protese a sollevarmi da terra per mostrarmi l’orizzonte. “Guarda sempre lontano, per capire…”.

E io lo facevo per fargli piacere e per me, senza sapere niente.

Viveva nella nostra stessa casa, in poche stanze indipendenti che odoravano di tabacco da pipa, di libri e di ricordi. C’erano anche fotografie in bianco e nero, molte, di paesaggi e persone d’Africa, dove aveva combattuto e trascorso qualche anno di prigionia.

Ne parlava, senza acrimonia, legando quel periodo della sua vita a scelte anche discutibili, ma vere.

Era un fatalista disilluso che aveva fortemente creduto in un sogno, più grande di lui e del suo Duce, ma non per questo da rinnegare alle prime avversità.

Io chiedevo di safari, leoni e jungla – erano gli anni delle letture “salgariane” e della sete di avventura – lui mi narrava di reticolati, fame, sete e tifo petecchiale – il Sud-Africa non era ancora “il mondo in un paese” dei depliant di carta patinata -.

Ne tornò provato nel fisico, per una serie di malanni dai nomi impronunciabili, e nello spirito, per riflessioni solitarie e ponderate sull’idealismo fascista.

Ma era vivo e giovane, solo più attento e disincantato.

Ci mise un po’ a recuperare i ritmi della normalità e dovette ricredersi su alcune questioni di fondo, nonostante fosse di mente aperta e sapesse che il vento politico era nuovamente cambiato.

Parlava un discreto inglese e, soprattutto, sapeva pescare a mosca.

Dell’ inglese se ne fece poco perché nel primo dopoguerra il dialetto era ancora la lingua madre e la Romagna, la sua Riviera e persino l’italiano erano sconosciuti ai più, mentre l’ insolito, per molti eccentrico, modo di acchiappare pesci lo rese subito famoso e gli fruttò il soprannome di “Lanzeta”.

Bene … Lanzeta sapeva come muoversi nel fiume e nell’acqua in generale, e … udite, udite! pescava per divertimento – lo chiamava sport – non per mangiare, che era comunque per quei tempi incerti un’esigenza primaria.

La gente lo guardava come si potrebbe osservare un marziano, con un interesse misto a soggezione, e scuoteva la testa, rapita ma poco convinta.

Era fuori dalla realtà e dal senso comune stare per ore coi piedi a bagno e frustare la corrente inseguendo la perfezione del gesto.

Il suo punto di vista era radicale, aveva sempre odiato i compromessi e anche questa volta si trovava a percorrere una strada in salita, molto poco affollata.

Non se ne curava, concentrato com’era sul non trascurabile fastidio di guadagnarsi il pane da vivere per poi potersi svagare liberamente.

Il lavoro scarseggiava, ma lui era abile in tutto e ricercato perché puntuale, preciso e disponibile al baratto. Aveva infatti uno strano concetto del denaro – un mezzo e non un fine – e della ricchezza.

“Guarda che i soldi non me li porto nella tomba” amava ripetere.

Era un antico Homo abilis, con tratti del cacciatore anzi pescatore raccoglitore del Paleolitico, alto, asciutto, le braccia lunghe a bilanciare un’andatura un pò dinoccolata, a larghe falcate, sostenuta da gambe sottili e nervose.

Da fermo, in piedi, sembrava un po’ pendere in avanti ed emanava energia positiva che si trasmetteva alle persone intorno.

Prendeva dalla natura quello che gli serviva senza accumulare il superfluo.

L’attrezzatura da pesca però era di prima scelta, costata una fortuna e fatta venire appositamente dall’ Inghilterra mentre, come si usa dire “l’abito non fa il monaco”, vestiva con panni militari sformati ma pratici, che gli conferivano una certa autorevolezza oltre a dotarlo di una miriade di tasche che tendeva a riempire di tutto; da qui l’altro nomignolo di “Eta beta”.

Non smetteva la divisa neanche la sera quando incontrava gli amici all’Osteria della Rosina, dove si tirava tardi a giocare a “marafone” e a bere il sangiovese della casa, prima di essere gentilmente sospinti fuori nel cortile, sotto il pergolato di vite.

Lì al buio si parlava di questo e di quello, di partiti molto “rossi” e di donne “more”, di soldi e di mangiare – celebre l’elegia del “pollo alla cacciatora” scritta dal “Pino” su un tovagliolo -.

Spesso mi intrufolavo fra loro e, dopo aver rubato un po’ di marsala all’ uovo da dietro il bancone, mi accoccolavo per terra fra i gatti per ascoltare e nutrirmi di storie. Ero tollerato per un po’, poi quando si facevano discorsi “da grandi” venivo spedito a dormire. Immancabilmente lo zio si alzava per accompagnarmi e mi prometteva di portarmi con sé a pescare – una volta o l’altra – diceva. Dovevo crescere, almeno fino a un segno tracciato a matita sul muro che si avvicinava ahimè lentissimamente, e imparare a nuotare, dopo che ero stato ripescato, letteralmente per i capelli, da una buca vicino alle scogliere di Cesenatico.

Vivevo di sogni e lui ne era l’artefice e l’artista.

Era diretto, rigoroso, con un codice morale intransigente, permeato di un certo misticismo religioso poco propenso al perdono senza punizione e a porgere l’ altra guancia.

Soprattutto odiava perdere tempo dietro la futilità delle cose e l’ignoranza delle persone.

Per qualche oscuro motivo, fra tanti nipoti, aveva scelto me come depositario dei suoi trucchi, dei suoi segreti, delle sue aspettative per il futuro che sempre, ostinatamente, rifiutava di considerare “ a termine”.

Di volta in volta allievo, scolaro, discepolo, feci di tutto per imparare, ma soprattutto per meritare la sua considerazione e acquisire la sua leggerezza d’animo.

Ci riuscii, e gradualmente “venni al vento”, in grado di scivolare nella vita e sul fiume, come lo zio.

Alla fine, quando l’Alzheimer lo allontanò per sempre da noi, feci quello che lui aveva fatto per me tante volte quando ero bambino: stare insieme, solo e semplicemente stare insieme. Lunghi giri a braccetto senza meta e senza parole, con la mia testarda speranza di un risveglio.

Talvolta, i suoi passetti rapidi si arrestavano per un attimo, una ruga di concentrazione compariva sulla fronte, gli occhi si accendevano su una visione che squarciava il velo della mente e il braccio destro aveva un movimento convulso al modo di lanciare qualcosa. Era come si aprisse una finestra temporale che fugacemente lo avvicinava alla realtà di un mondo parallelo, ormai irraggiungibile e lo liberava dalla prigione dove la malattia l’ aveva rinchiuso irrimediabilmente.

 Questo era mio zio e le sue storie hanno chiamato le mie.

 QUARTA DI COPERTINA

Una raccolta di racconti brevi che hanno la pesca come filo conduttore, ma che parlano di tante cose, con un linguaggio diretto, leggero, ironico.

Ci sono uno zio, un nipote e altri personaggi, sfumati ma emblematici. L’ ambientazione è il mondo e lo svolgimento è l’ arco di tempo della vita di un bambino che diventa uomo.

La lettura è una piacevole evasione che trasmette sensazioni positive e lascia di buonumore, senza falsa retorica e rimpianti.

I disegni di china completano la suggestione e diventano compagni ideali, quasi animati.


Biografia

Nicholas Guirich, pseudonimo di Arturo Lattunedduvive e lavora a Forlì, dove è un chirurgo dell’ ospedale G.B. Morgagni.

E’ un appassionato lettore di romanzi storici e, quando può, fugge dalla routine per viaggiare e pescare, preferibilmente con la moglie, i due figli e il cane, un jack russell di nome Rudy. Non ha mai scritto, nemmeno per diletto, ma conta numerose pubblicazioni in ambito medico.