Cultura

Elizabeth Strout, il Pulitzer dal lungo respiro

Un po’ di tempo fa, su twitter, discutevo con un’amica. Lei diceva che Alice Munro batteva Elisabeth Strout dieci a uno. E proprio io, che amo follemente Alice Munro e la considero la massima scrittrice contemporanea, difendevo Elisabeth Strout. Alla fine, la mia amica (forse per evitare il mio stalking) si schermiva, diceva che il suo era solo uno stupido giochetto da social network. Ma io non ero d’accordo nemmeno su questo. Perché la sua era una provocazione molto intelligente, che andava a sollevare una differenza di fondo davvero interessante da discutere, ben oltre i 140 caratteri consentiti da twitter.

Da questo confronto, nato per gioco – Munro contro Strout – si apre un confronto ben più ampio, sulla letteratura. E’ meglio una scrittrice come la Munro o una narratrice come la Strout? Due antipodi, su questo non ci sono dubbi.

La Munro è profondamente scrittrice: ti spiazza ogni pagina, con le parole e le immagini sposta il tuo punto di vista in continuazione, le bastano poche righe. E ho amato la definizione di un’altra scrittrice italiana, Rossella Milone, che si è inserita nel dibattito su twitter per dire che la Munro possiede «la luccicanza». Verissimo: quello splendore curato che ti acceca, o ti fa vedere di più. Ma la Strout, che non ti abbaglia sulla pagina, ti abbaglia con il suo grande disegno. Lei ti stende con il lungo respiro.

E’ come paragonare una centometrista (la Munro) a una maratoneta (la Strout). E’ bellissimo vedere correre le gambe più potenti – dio, che emozione – ma, se uno ha pazienza, esulta uguale quando un atleta supera da solo i quarantadue chilometri. 

E basta leggere il nuovo romanzo di Elisabeth Strout, premio Pulitzer del 2009, I ragazzi Burgess (Fazi), per capire che quel respiro è lungo: la storia di tre fratelli del Maine si trasforma in un ritratto dell’America e dei suoi più profondi fallimenti. Come in Pastorale americana di Roth, Il falò delle vanità di Wolfe o Sorella, mio unico amore della Oates, come succede nei capolavori insomma, una vicenda privata diventa il pretesto per scardinare le mitologie di un’intera nazione, e di un’epoca. La sua corsa è molto molto lunga, insomma.

Tutto parte da un gesto insensato. Un adolescente, fragile e solo, lancia una testa di maiale in una moschea. Non è la provocazione di un razzista, è solo la sciocchezza di un ragazzino abbandonato dal padre, che cerca di attirare la sua attenzione così. Zach neanche immagina le conseguenze, l’arresto e le successive accuse federali, molto politiche, che arrivano addirittura al «crimine d’odio». Senza volere, ha aperto un vaso di Pandora da cui esce tutta l’intolleranza di Shirley Falls, incapace di accettare davvero la comunità somala che cresce in città (per tutto il romanzo, la gente si sbaglia  e li chiama «somalesi» invece di «somali»: nemmeno un nome giusto sanno dare ai loro incomprensibili vicini). Susan, la madre di Zach, è disperata e chiede aiuto ai suoi fratelli, Bob e Jim, che da giovani hanno abbandonato la provincia per fare carriera a New York.

Su questa base, la Strout intaglia, immensa e precisa, un grande romanzo sulle differenze: differenze fra fratelli, fra culture, fra New York e la provincia. E lo fa con tanta sottigliezza da rendere impossibile qualsiasi giudizio.

L’integrazione è solo un miraggio del buonismo americano, perché sotto c’è solo ignoranza e rancore verso la diversità («da quando sono andate giù le Torri è proprio questo che vogliamo noi ignoranti bambinetti americani. Avere il permesso di odiarli», dice un personaggio) eppure sono proprio i somali i veri difensori di Zach, gli unici che si accorgono che è solo «un bambino spaventato».

La famiglia, il grande mito su cui si fonda l’americanità, vacilla uguale: la riunificazione dei fratelli Burgess si trasformerà in un drammatico viaggio nel passato, in uno svelamento dei rapporti di forza o di debolezza che sempre regolano certi legami, fino a toccare quel fondo nero di segreti e bugie che può portare solo a un odio definitivo, o a un amore più vero. Eppure, la Strout alla fine racconta una solidarietà possibile soltanto fra consanguinei.

Con la stessa ambiguità e ricchezza, ritrae un paese diviso fra capitali avanzate, che tirano le fila del mondo, e province ignare di tutto, che nemmeno capiscono quelle che succede nelle loro capitali. Fra New York e il Maine in fondo passa lo stesso abisso che separa gli abitanti di Shirley Falls dai somali. «Quando ero a New York, mi è venuto in mente che forse è così che si sentono i somalesi», dice a un certo punto la sorella rimasta nel Maine. «Non sapevo come si usa la metropolitana e tutti mi superavano di corsa, perché lo sapevano».

E con questa grazia, la Strout ci fa capire che ogni fallimento individuale diventa un po’ un fallimento collettivo.