Cultura

La letteratura non deve chiedere scusa

Il romanzo con cui ho esordito racconta anche di un mondo polacco; è la storia di un amore ed è una dichiarazione di devozione in sostanza nei confronti di un popolo intero, il popolo dei vinti, degli sradicati. La premessa la dedico alla signora polacca che di recente mi ha insultato con una violenza inaudita (più che altro del tutto fuori controllo), accusandomi di ogni nefandezza e disonestà. A dir la verità ci sarebbero pure gli estremi per una denuncia, ma: chissenefrega. Non ho individuato ancora la ragione di un tale odio (odio, esattamente), presumo si sia sentita offesa leggendo il romanzo che in fondo illumina i nuovi martiri delle metropoli, col volto caliginoso e stoici nella loro stoltezza, nel loro vissuto ameno, nella loro sciagura.

Nel romanzo emerge il sottobosco di anonimi, senza tetto, borderline, malati di nostalgia e di alcol, e di costoro ne racconto con partecipazione e pietà. La  donna polacca non ha gradito. Bene: la letteratura non deve chiedere scusa, posto che io in qualche maniera ne faccia uso. Anni fa, scrissi un articolo in cui descrivevo la vita di una giovane di Varsavia, costretta ad abbandonare il proprio paese in cerca di un’Europa più accogliente e meno fragile di quella in cui aveva vissuto fino ad allora. Sbagliai probabilmente ad utilizzare un termine riferendomi ad un certo brutto quartiere di Varsavia, il termine era “orinatoio”, preso peraltro in prestito da un epistolario che avevo letto con interesse e che per me fu davvero illuminante, l’epistolario era di Kazimierz Brandys, “Lettere alla signora Z” (testo molto amato da Leonardo Sciascia). Brandys, polacco di Lodz, parlava di una Polonia sobria e di una Polonia ubriaca, i cui contorni emergevano laconici, mai traditi da pietismi o inutili slanci nazionalisti. Era tutto molto vero, era un fatto, anche alcuni quartieri lo erano, la vodka è uno strano balzello, leggete Marek Hlasko e troverete qualche conferma. Raccontavo dunque di questa donna e di una certa Polonia, ci provavo. Usai quel termine: orinatoio, riferendomi al distretto di Legionowo, di alcune zone in special modo (vale per tutte le periferie del mondo, a mio avviso). La donna, letto l’articolo che la riguardava, scrisse quindi con la complicità di un paio di amici – due italiani e una polacca – alla direzione centrale del  giornale per cui allora lavoravo, invitandola a provvedimenti rapidi nei miei riguardi: vivamente, licenziandomi. Per cosa? Per quel lemma: orinatoio. Il direttore del giornale, l’editore, non diedero seguito alla cosa e soprattutto non mi punirono, sapete si può fare, ci sono retrocessioni strategiche che nascono sulla scia di fatti e sollecitazioni simili, perlomeno in certi luoghi del sud (che per mia fortuna ora non frequento più).

Di queste donne che mi hanno accusato e insultato, con le loro segrete o non segrete ragioni, mi sono fatta un’idea: sono quelle stesse che parlano male della connazionale, di tutte le altre donne, si chiamano “kurwa” tra loro, sconfessando le proprie origini, se possono evitando di aiutarsi a vicenda, al limite seppellendosi l’un l’altra. Ma ho conosciuto anche donne straordinarie. Non è una questione geografica. Liuba, letto il romanzo, signora ucraina di mezza età, che vive da anni a Milano, in una lettera scritta a mano, mi dedicò le parole più belle e commosse che io ricordi di aver mai ricevuto. Liuba aveva colto lo smarrimento, una condizione universale che atteneva a tutti gli esuli del mondo: ed era una malattia dello spirito, era la nostalgia