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Eurocrisi, il richiamo dell’Angola attira sempre più i portoghesi in fuga

Nel 2006 l'ex colonia di Lisbona ha emesso 156 permessi di lavoro per dei giovani lusitani. Nel 2010 erano diventati 23mila. Oggi non si contano più perché circa il 38% delle società basate nel Paese africano sono portoghesi

Adìos vecchi retaggi imperialisti. Nell’Europa che tradisce la speranza, i giovani portoghesi riscrivono la storia. Per decenni il Portogallo ha attirato immigrati da quelle che furono le sue colonie in America Latina e in Africa. Oggi sta succedendo esattamente il contrario. Per gli economisti è un fenomeno che potrebbe varcare anche altre frontiere. Per esempio quelle degli altri paesi del Sud Europa.

Alla ricerca di un lavoro che nel loro Paese non c’è o che li condanna, anche quando lo trovano, a un salario minimo da fame, di neanche 500 euro a mese, i lusitani hanno deciso di non stare più a guardare. In cerca di riscatto tornano nelle terre dove cinquant’anni fa avevano coronato le loro ambizioni di colonialismo. Se per chi ha una laurea in tasca in ingegneria o in architettura è il Brasile a disegnare nuove prospettive sul boom delle infrastrutture che arriveranno, in vista del Campionato del Mondo di calcio che si disputerà l’anno prossimo e delle Olimpiadi nel 2016, per tutti gli altri il sogno da cavalcare si chiama Angola.

E’ nei numeri che questo esodo amaro, senza alternative, acquista sostanza. Fra il 2009 e il 2010 i portoghesi che si sono iscritti al registro dei residenti presso i Consolati in Brasile sono saliti di 60mila “unità”, ma se si guarda a quanto accaduto in Angola ci si accorge che lì l’esodo è stato ben più importante. Nel 2006 sono infatti stati emessi 156 permessi di lavoro a favore dei giovani lusitani. Nel 2010 erano diventati 23mila. E oggi non si contano più perché – denunciano i dati rilasciati dal governo portoghese nell’osservatorio sull’immigrazione – circa il 38% delle società basate in Angola sono portoghesi.

Un numero di gran lunga superiore anche alle realtà imprenditoriali che parlano cinese, che si ritagliano una fetta di “appena” il 18,8 per cento. Per gli economisti siamo di fronte un evento dalla portata storica, di quelli che dovrebbero far riflettere anche gli altri Paesi e soprattutto i loro governi in Europa. Qualcuno dice che se oggi la terza più grande economia dell’Africa sub-sahariana attira così tanti portoghesi lo fa grazie al suo legame “culturale” con il passato. Solo nel 1975 l’Angola si è, infatti, sottratta dal giogo del colonialismo. Dopo essersi risollevata dalle macerie di una guerra civile, in dieci anni di pace ha cambiato il suo volto.

Mentre il Portogallo è sempre sull’orlo del baratro. Qui il clima con creditori e investitori resta teso, nonostante la settimana scorsa il Parlamento abbia approvato il nuovo piano del governo conservatore di Pedro Passos Coelho che prevede 30mila posti di lavoro in meno nel pubblico impiego, l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni e il taglio del 10% delle pensioni pubbliche superiori a 600 euro. Il Fondo monetario ha osservato che le prospettive di crescita rimangono deboli. E anche Fabio Fois, economista di Barclays, in un recente report lo ha evidenziato, avvertendo che nel medio termine le previsioni per il Paese potrebbero deteriorarsi. Così i portoghesi lasciano tutto quel poco che hanno e se ne vanno. Difficile dire cosa accadrà ai giovani di Spagna, Grecia e della stessa Italia messi alle corde dalla stessa crisi. La voglia di riscatto dei loro coetanei lusitani ha qualcosa da insegnare. Richiama una storia non troppo lontana, che potrebbe ritornare d’attualità anche su altre latitudini. Sempre al contrario.