Società

Fra malessere e assuefazione, l’inutile rabbia di ‘ultima generazione’

La rabbia è sana, fa parte delle emozioni presenti dentro l’uomo e  la natura non fa le cose a caso.

Siamo stati forniti di ragione ed è grazie ad essa che, anche in preda alla collera, possiamo gestire situazioni che potrebbero sfociare in comportamenti violenti. La violenza non nasce semplicisticamente dalla rabbia, ma da una rabbia che non si è in grado di controllare.

In questo periodo avverto negatività nelle persone e, per deformazione professionale, cerco di partire da quella che è la mia esperienza ed il mio vissuto per fare alcune considerazioni. Quando ascolto le parole di un qualsiasi politico in me c’è rabbia perché ad esse non sono mai seguite che altre parole inutili e vuote. Quando sono di fronte ad una persona che ha difficoltà a pagarsi una bevuta tra amici la sera, a comprarsi un libro, ad offrire una cena al proprio compagno o alla propria compagna, in me c’è rabbia perché una vita sana si basa sulle piccole cose, non necessita delle grandi.

Quando ho notizia di un uomo suicidatosi per motivi economici in me c’è rabbia perché non si può permettere che una vita umana, dal valore immenso, possa essere stroncata dalla mancanza di denaro, una mancanza nella quale nasciamo e che quindi non è basilare per la vita. I soldi sono un artefatto culturale, non li mangeremo mai, siamo vissuti senza o dandogli molta meno importanza in passato. Nascono come uno strumento per agevolare gli scambi di prodotti, ma, diventando un fine, si trasformano in una condanna.

In me c’è rabbia, ma anche dolore, pur non conoscendo le persone che si sono suicidate o tutte quelle che combattono ogni giorno per arrivare alla fine di esso con qualcosa dentro lo stomaco che non sia solo amarezza, angoscia e paura di non farcela. Il mio non può essere lo stesso dolore palpitante di chi vive tutta la drammaticità di queste situazioni, ma è comunque un dolore partecipante. Avverto un malessere esistenziale e di sfondo, un senso di fallimento collettivo perché permettiamo che ciò accada. Limpotenza attanaglia, mi chiedo cosa posso fare io, singola persona, per cambiare le cose. Mi rispondo che non posso fare niente, sarebbe come combattere contro i mulini a vento. Risposta autenticamente ipocrita e drammaticamente vera, io singolo posso fare ben poco o sento di poter fare poco. Dentro di me mi vivo comunque colpevole. Coltivo il dubbio che sia io a non vedere una risposta adeguata perché devo continuare a sperare.

Ne esistono di motivi per essere arrabbiati: la mancanza di un lavoro stabile adeguatamente retribuito, un sistema pensionistico che ci permetta una vecchiaia dignitosa, il dover pesare sulle spalle della propria famiglia di origine, il senso di precarietà esistenziale che ci viene addosso nel momento che non siamo più in grado di operare delle progettualità sul nostro futuro, la difficoltà o l’impossibilità di poter provvedere adeguatamente ai nostri figli oppure la difficoltà o l’impossibilità di scegliere di diventare padri e madri perché non potremmo garantire una sussistenza dignitosa a chi metteremmo al mondo.

La politica non è inadeguata a risolvere questi problemi, è solo disinteressata a farlo. Una mia amica, qualche giorno fa, dopo aver pagato una cifra consistente per l’Imu, mi ha detto che, secondo lei, i nostri governanti non si rendono minimamente conto di quello che chiedono ed io le ho risposto che invece il problema è proprio il contrario ossia che lo sanno benissimo. Se non si rendessero conto dei sacrifici che impongono ci sarebbe sempre la speranza che prima o poi ne prendano coscienza e provvedano.

E ci arrabbiamo, ma solo sui social network. Gridiamo allo scandalo, vociamo vendetta, facciamo girare il più possibile le notizie, ci mostriamo indignati, ci diamo solidarietà con i “mi piace” e qualche commento piccato. Partecipiamo alla collera ed indignazione collettiva con un clic e con lo stesso clic esprimiamo la nostra. Una condivisione che assume un valore catartico poco funzionale in quanto sembra frenare ogni altra azione.

Internet è stata una gran bella cosa, ma ci ha cambiato dentro e questo sta avendo un prezzo. Troppe volte riusciamo ad esprimerci molto meglio in rete rispetto a come faremmo con delle persone vere davanti. Su facebook abbiamo il coraggio delle nostre idee semplicemente perché non rischiamo nulla. Mi chiedo che valore possiamo dare alle nostre idee se non sono in grado di andare oltre un post. E’ la montagna che partorisce il topolino.

Qualche tempo fa mi si è rotto lo smartphone e ho dovuto a farne a meno per qualche giorno. Le prime ore son stato nervoso, ormai quel tipo di cellulare mi è necessario per lavorare e mi piace essere in contatto con gli amici quando voglio tramite le  varie applicazioni. Il primo giorno è stato “traumatico”, ma dal secondo invece ho avvertito, in modo inaspettato, un senso di rilassamento e di libertà che avevo dimenticato. Mi sembrava di essere naufrago su un isola deserta solo perché senza telefono eppure ero in pieno centro a Firenze e, se esagero, è solo per rendere l’idea. Posso non essere in collegamento con il mondo intero e stare bene. Fino a non tantissimi anni fa vivevo senza poter essere contattato ovunque, senza condividere con tutti i miei pensieri, le cose che avevo da dire le dicevo a meno gente, ma non era un problema, se avevo una curiosità non andavo a cercare subito su internet, ma ero in grado di tenermela per un po’ e reggere la frustrazione di non sapere subito oppure di non sapere affatto. Riparato lo smartphone la mia “schiavitù” ha ripreso esattamente da dove l’avevo lasciata.

E così la nostra rabbia trova valvole di sfogo di ultima generazione che ci permettono di esternarla senza cambiare nient’altro che una pagina facebook o poco più, mentre intanto il malessere dilaga. La cosa peggiore è che lo stare male o meglio l’accettare di non poter stare meglio,(dove con meglio intendo l’avere un tetto di proprietà ed uno stipendio dignitoso, ossia quello che avevano, bene o male, i nostri genitori) diventa necessariamente e paradossalmente conditio sine qua non per sopravvivere.

Scambiamo il sopravvivere con il vivere non avendo mai conosciuto quest’ultimo o essendo ormai un ricordo sbiadito. E’ una forma di assuefazione che ci permette di salvare il salvabile nella staticità degli eventi, ma che non ci permetterà mai di salvare noi stessi. Normalizziamo la violenza che ci viene imposta per non doverla guardare brutalmente in faccia, non reggeremmo lo sguardo.  Jiddu Krishnamurti, filosofo indiano, diceva: “Non è segno di buona salute mentale essere ben adattati ad una società malata”.