Cultura

Populismo: la sinistra dietro il velo di ignoranza

Così come ho giurato solennemente di non votare mai più Pd nella mia vita, giuramento che per ora mantengo, avevo anche giurato di non comprare mai più La Repubblica dopo aver letto un paio di settimane fa lo spaventoso editoriale di Eugenio Scalfari contro Rodotà. Poi, per pigrizia, inerzia, abitudine e anche per mancanza di alternative (motivazioni tutte fondamentali per spiegare veramente perché facciamo quel che facciamo) settimana scorsa sono passata davanti a un’edicola di Parigi che vendeva giornali italiani e, dato che la scelta era tra La Repubblica e La Gazzetta dello Sport, ho ceduto e ho comprato La Repubblica. E non me ne pento, perché ho letto un bellissimo articolo di Barbara Spinelli su Grillo e il populismo che riprendeva temi che la Spinelli sta trattando da qualche tempo, in generale sul rapporto tra l’Europa politica e il populismo, e che meritano secondo me una riflessione approfondita.

Da un po’ di tempo la Spinelli sostiene che un grande errore della politica europea, e anche della sinistra europea, sia quello di tacciare di “populismo” – massimo insulto politico in Europa in questo momento – qualsiasi espressione popolare di dissenso, di perplessità morale davanti a cambiamenti subiti delle norme del vivere comune, di rivendicazione di una visione di se stessi e del proprio habitus di vita contro una concezione di chi siamo imposta dall’alto. Insomma, il popolo quando parla, pensa, si esprime, cerca di identificarsi, è stupido, pericoloso, razzista, sessista, omofobo, anti-europeista, anti-scientifico, una specie di folk proto-nazista le cui idee sono da sopprimere sul nascere. Ed effettivamente esperienze come la Lega, il Front National, i partiti xenofobi del Nord Europa, ecc., l’antisemitismo ungherese, devono fare riflettere sul possibile uso e abuso dell’ethos popolare.

Però tutti abbiamo sentito nelle ultime settimane della vita politica italiana che c’è stato uno scarto incolmabile di percezione di valori, di concezione dell’eticità (ossia delle norme etiche che una società esprime, non che si impone) tra la sinistra politica e la sinistra reale del paese, e che il movimento 5 stelle aveva dato voce a una richiesta di rinnovamento della società che veniva dal “popolo” e che questa richiesta non è stata ascoltata.

Non mi azzardo a fare analisi politiche perché proprio non è il mio mestiere, anche se tutti in queste settimane parlano di tutto. Ma, a partire dalle riflessioni della Spinelli, vorrei cercare di trovare le radici filosofiche di questo scacco della sinistra politica nel dare ascolto a chi dovrebbe rappresentare. Credo che le scelte teoriche profonde che la sinistra liberale ha fatto almeno negli ultimi trent’anni abbiamo un ruolo in questo scacco.

La grande svolta della sinistra negli Anni Ottanta fu quella di accettare la democrazia liberale, ossia un sistema che avesse ugualmente a cuore i valori della giustizia e della libertà, come unico sistema verso cui una società decente possa tendere. Ci voleva un pensiero filosofico che avvallasse questo cambiamento, che trovò un grande impulso nell’etica normativa di tradizione anglosassone sviluppatasi attorno all’opera di John Rawls. Nella sua opera, Una teoria della giustiziadel 1971, Rawls faceva due cose: 1) riabilitava il ragionamento normativo, astratto, sull’etica e la politica – diciamo un approccio kantiano – per comprendere cosa sia una società “giusta” e 2) introduceva uno degli esperimenti mentali più astuti di tutta la storia della filosofia come strumento, anch’esso normativo, per prendere decisioni giuste: il famoso velo di ignoranza. 

Immaginiamo una comunità che si riunisce e deve darsi regole su cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ebbene, se ognuno pensa dal proprio punto di vista, allora, se è una donna, penserà che è giusto dare più diritti alle donne, se è un disoccupato penserà che è giusto alzare i sussidi di disoccupazione, ecc. Allora, dice Rawls, la discussione va fatta insieme ma dietro a un velo di ignoranza, in cui nessuno sa la posizione che occupa o occuperà nella società che la sua concezione di giustizia farà emergere.

Gli individui sono quindi autonomi e razionali, ma non parziali e interessati nel modello di Rawls. La società che ne segue è normativamente e razionalmente concepita in modo imparziale. Geniale no? Così si faceva andare finalmente insieme l’autonomia degli individui con il bisogno di razionalità collettiva e il senso di giustizia, contro tutte quelle teorie di sinistra che vedevano gli individui come dei dominati, deprivati delle loro capacità decisionali perché vittime di falsi desideri, falsi bisogni e false aspettative indotte in loro da una società stregata e capovolta e organizzata dal Capitale (marxismi vari, teorie dell’egemonia, foucaultismi biopolitici ecc, ecc.).

Eppure, con il passare degli anni, l’impatto del ragionamento puramente astratto e normativo sulle decisioni politiche sembra essere meno convincente, o almeno da ridiscutere. Questa per esempio è la critica che da vent’anni Axel Honneth, filosofo, critical theorist ed esponente della scuola di Francoforte, rivolge alla tradizione normativa anglosassone. Le norme non posso emergere solo da manipolazioni intellettuali: le norme emergono da istituzioni sociali vissute: la società insomma esprime una sua eticità. Questa eticità è, secondo Honneth, basata non sugli individui autonomi e razionali, ma sulle relazioni degli uni con gli altri, su un “noi” che si costituisce nei rapporti interpersonali di amicizia e di amore, nelle relazioni di mercato e nei rapporti con lo Stato. Il vivere comune degli esseri umani si esprime in istituzioni che regolano i loro bisogni di riconoscimento. Ma nessuno può riconoscere l’altro dietro al velo: il riconoscimento richiede un punto di partenza parziale, storico, incarnato. Il suo ultimo libro Das Recht Der Freiheit (Il diritto della libertà), ha come sottotitolo: per un’eticità democratica. Questa “eticità democratica” deve essere secondo Honneth l’oggetto di studio della filosofia politica: il filosofo non deve dare norme astratte, ma essere in grado di esporre criticamente le norme che sono oggettivamente incarnate dalle istituzioni sociali. Insomma, la società, il demos, esprime storicamente un’eticità ed è questa dimensione etica che dev’essere a fondamento della filosofia politica.

Non so se leggere Hegel invece di Kant, o Honneth invece di Rawls, sia una via d’uscita all’impasse morale e intellettuale della sinistra italiana (che davvero non so cosa legga ultimamente…). Certamente è forte l’intuizione che una filosofia che sappia riappropriarsi della dimensione storica e culturale all’interno della quale l’eticità di una società evolve è forse più adatta a comprendere gli enormi cambiamenti del presente degli esercizi formali dei filosofi di Oxford.