Economia & Lobby

I numeri sbagliati dell’austerità (e degli economisti)

Da un paio di giorni la comunità degli economisti è sconvolta. Si è scoperto che uno degli articoli scientifici più influenti degli ultimi anni – oltre 2000 citazioni – era sbagliato. Nel 2010, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart di Harvard presentano un paper che sembra dare basi scientifiche e inconfutabili alle politiche di austerità: confrontano molti Paesi, tra il 1945 e il 2009, e scoprono che quelli con i conti più in ordine, cioè con un debito sotto il 30 per cento del Pil, sono cresciuti in media del 4,1 per cento. Quelli con debito tra il 30 e il 90 del Pil del 2,8. Invece quelli con più del 90 per cento (tipo l’Italia) hanno avuto una crescita media negativa, -0,1. Traduzione di politica economica: quando il debito diventa troppo elevato, il cappio degli interessi porta il Paese in recessione. Dunque ridurre il debito pubblico a colpi di tagli e tasse è, per quanto sgradevole, necessario per tornare alla prosperità.

Tre anni dopo, due professori della Amherst in Massachusetts, Robert Pollin e Michael Ash affidano a un loro studente, Thomas Herndon, un esercizio classico ma poco praticato: prendere i dati su cui si basa una famosa ricerca e rifare i conti, come forma di esercizio (quello che dovrebbero fare, ma spesso non fanno, le riviste accademiche prima di pubblicare gli articoli). Risultato: i conti di Rogoff e Reinhart erano sbagliati, pare per colpa di un problema del software Excel che ha escluso alcuni Paesi e alcuni anni che avrebbero cambiato il risultato. I “revisori” ottengono infatti numeri assai differenti: i Paesi con il debito sopra il 90 per cento sono cresciuti, in media, il 2,2 per cento all’anno invece che -0,1 come stimato da Rogoff e Reinhart. Forse un po’ poco, ma niente di drammatico. Nessun politico rischierebbe la rielezione per imporre tagli e aumenti delle imposte sapendo che un debito alto comporta soltanto una crescita un po’ più bassa.

I due economisti di Harvard, che hanno usato le loro ricerche per un best-seller internazionale, ‘Questa volta è diverso’ (Il Saggiatore), ammettono gli errori ma si difendono così: anche nella nuova versione i calcoli dimostrano che i Paesi ad alto debito crescono in media meno di quelli con debiti bassi. Forse è vero. Ma questo ci permette di dire con sicurezza che alto debito e bassa crescita spesso si riscontrano assieme. Ma non è detto che il debito sia la causa della scarsa crescita. Potrebbe anche essere il contrario.

Comunque, grande scandalo: Paul Krugman, sul suo blog, smonta con gusto tutto il lavoro di Reinhart e Rogoff. Così come pochi mesi fa aveva assistito compiaciuto al mea culpa di Olivier Blanchard, il capo economista del Fondo monetario internazionale: dopo aver spinto per anni per il rigore e la riduzione del deficit, al Fmi si sono accorti che avevano sbagliato i moltiplicatori. Cioè che ogni taglio alla spesa pubblica in tempo di recessione aveva conseguenze sul Pil più gravi del previsto.

In alcuni blog il caso Rogoff&Reinhart è presentato come la definitiva perdita di credibilità degli economisti. Ma se l’economia ambisce a essere una scienza (sia pure sociale), deve sottoporsi al requisito minimo di Karl Popper: le teorie devono essere falsificabili, altrimenti sono richieste di fede. Da quando l’economia si è separata dalla filosofia e dall’etica per sposare la statistica ed evolversi in econometria, le idee devono camminare sui numeri. E se i numeri non le confermano, le idee vanno cambiate.

Quindi, tutto sommato, il grande scandalo è in realtà una buona notizia: uno studente qualsiasi può smentire i luminari di Harvard e, se ha ragione, loro devono chiedere scusa, non c’è principio di autorità che tenga. Però a differenza di altre scienze, il laboratorio dell’economia è la società: il prezzo degli errori lo pagano le persone.

In questi anni molti politici hanno trovato comodo usare gli economisti come oracoli, usando locuzioni come “lo dice anche l’Ocse” (o il Fmi o la Bce) per troncare qualunque dibattito. Ma gli economisti possono sbagliare. E se l’unico fondamento di certe politiche è un’equazione, caduta quella il politico non ha più nulla da dire. Perché aveva delegato ad altri, a tecnici lontani dagli elettori, il compito di elaborare la politica economica. Il dibattito sul rigore e sulle politiche espansive continuerà (dura almeno dalla crisi del 1929). Ma il momento dei sostenitori dell’ortodossia del rigore sembra avviarsi alla fine.

Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2013

@StefanoFeltri