Scienza

Neuroscienza, la responsabilità nel “male”

Z. Bauman, il filosofo della società liquida, riprende ed amplia in: “Le sorgenti del male” (Erickson 2013), il giudizio che H. Arendt diede al processo Eichmann su “La banalità del male” (Feltrinelli 1964): dietro le pagine più nere della nostra storiala schiavitù, il nazismo, la strage di Srebrenica, i vari genocidi, o altre possibili “quisquilie” malefiche, come la prigione di Abu Ghraib o il G8 di Genova, non ci sono esseri “mostruosi” e in quanto tali facilmente identificabili, ma persone assolutamente normali e quindi poco riconoscibili. Questo non per una diabolica capacità mimetica, ma per un meccanismo più inquietante e diffuso che vede in ognuno di noi una parte malvagia “dormiente”difficilmente prevedibile, anche da noi stessi, prima che si manifesti entrando in azione. Se queste sono le speculazioni di sociologi e filosofi, vediamo dove ci portano le moderne neuroscienze.

D. Eagleman nel suo ultimo libro “In incognito“(Mondadori 2012) mostra come una particolare serie di geni accresce dell’882% la probabilità di compiere qualche malvagità, picchiare, ferire, stuprare, rapinare. Oltre al patrimonio genetico, uno smisurato numero di fattori naturali e culturali, può influenzare, condizionare, fino a determinare, i nostri comportamenti, al di fuori della coscienza. Basta pensare al rapporto fra prolattina e atteggiamento materno sia negli esseri umani che negli animali, o al ricorrere alla castrazione chimica, per diminuire il tasso di testosterone, per combattere i reati sessuali.

Nella civile Inghilterra, nel non lontano 1952, Alan Turing, uno dei padri dell’informatica moderna, fu sottoposto a questa pena con “l’infamante” accusa di omosessualità. Umiliato, si tolse la vita due anni dopo, a 41 anni. Più difficile capire quali ormoni avessero influenzato i suoi accusatori, ma forse e solo un esempio di cattivo uso del libero arbitrio.

Il cervello umano è costituito da un gigantesco numero di neuroni che, quando vengono sollecitati, costruiscono connessioni fra loro, creando reti neuronali che comunicano in maniera facilitata, svolgono funzioni specifiche e sono a loro volta collegate con altri circuiti funzionali, pur mantenendo la loro individualità. Solo alcune di queste reti sono legate alla coscienza, le altre si comportano come qualsiasi altro organo del nostro corpo, fanno il loro dovere in incognito. Oggi, anche in psicoterapia, si parla sempre più di un corpo pensante, di memorie corporee escluse dai circuiti della consapevolezza, di “embodied mind” (mente incarnata), di un “conosciuto” dal corpo che non riesce ad essere pensato. Un inconscio che si aggiunge alla parte inconscia freudiana che ospita le pulsioni e le fantasie che sentiamo sconvenienti. Un complesso gioco di forze, ai confini fra mente e corpo, in grado d’influenzare, al di fuori della nostra coscienza, l’equilibrio dei muscoli quando sorridiamo, balliamo o andiamo in bicicletta, così come le nostre azioni, preferenze, tendenze, scelte e modi di relazionarci.

L’idea che un elemento naturale o culturale possa spingerci ad amare la cioccolata invece del caffè non suscita grossi problemi. Ma se fattori esterni alla nostra soggettività entrano in gioco nell’influenzare, condizionare o a volte determinare comportamenti etici e morali, ad es. essere buoni o malvagi, ci sentiamo a disagio avvertendo una limitazione del libero arbitrio, fulgido vessillo che ci differenzia dagli altri animali. Preferiamo mettere all’indice i “cattivi” invece che comprenderli e curarli. Eppure dobbiamo rassegnarci, come dice Eagleman: “C’è qualcuno nella mia testa ma non sono io!”.