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Boston dopo la tragedia: una città sospesa tra psicosi e dignità

Il giorno dopo, a Boston, c’è il sole e un vento che fa sbattere le tende attrezzate per i maratoneti. Tende bianche in mezzo a una strada deserta: l’immagine di una città ferita profondamente. E te ne accorgi subito, sin dall’arrivo in stazione, dove ci sono gruppi di persone con le loro tute colorate e medaglie al collo che fanno da contrasto a volti tristi e stanchi, tradotti in abbracci silenziosi. Abbracci che nessuno sembra neppure notare, perché è da lunedì pomeriggio che la città non fa altro che reagire e abbracciarsi. Quell’esplosione ha causato tre morti, 176 feriti, fatto saltare arti e colpito teste, ma ha anche riaperto l’incubo dell’Undici settembre e di quell’aereo, quello che si schiantò sulla Torre Nord, partito proprio da qui, dall’aeroporto Logan.

Non a caso, subito dopo l’esplosione, lo spazio aereo era stato immediatamente chiuso e anche ieri, in mattinata, un aereo proveniente da Philadelphia è stato bloccato per diverse ore sulla pista dell’aeroporto per consentire ai corpi speciali di effettuare controlli accurati su una borsa che aveva attirato l’attenzione degli addetti ai bagagli. Cadendo dal carrello che la trasportava con altri bagagli, aveva emesso un rumore particolare, simile a uno sparo.

Il luogo dove è avvenuta l’esplosione sta nel cuore della città, solitamente pullulante di gente: studenti, uomini d’affari e turisti. Ora una presenza imponente di poliziotti e militari la rende un deserto silenzioso. Molti negozi, anche nelle strade secondarie, sono chiusi; altri restano aperti nonostante non ci sia nessuno con la voglia di fermarsi a comprare. Le transenne impediscono di arrivare vicino a quella famosa linea di arrivo dove era sistemato il primo ordigno ma, anche da un po’ lontano, i segni si colgono tutti: la gioia e la disperazione insieme, i simboli della corsa e quelli della ferita, bottiglie, pettorine, bicchieri di carta e poi vetro, macchie di sangue e palazzi deserti svuotati dalla vita.

I bostoniani passano, quasi di fretta, non si fermano, non guardano: la loro vita deve ricominciare oggi e continuare domani con questa ferita. “Non possiamo aver paura – dice Susan che lavora da queste parti – altrimenti avremmo perso completamente”. Gli altri, i turisti, i maratoneti, i giornalisti, si fermano, in silenzio. C’è una tale calca, eppure tutto ciò che si sente è silenzio interrotto dal rumore di quelle tende che sbattono per il vento. “Ieri era una baraonda – spiega Bobby, arrivato da una città a un paio d’ore da qui – tutti scappavano e si vedeva sangue ovunque”.

Sangue di arti saltati in aria, come quelli di due fratelli che hanno perso una gamba ciascuno e che la madre ha cercato disperatamente prima di ritrovare entrambi, comunque, vivi. Correvano anche i primi soccorritori, i volontari e i maratoneti che hanno formato subito delle file negli ospedali per donare il sangue. Sangue di 96 Paesi diversi, arrivati qui per la pace e costretti a confrontarsi, invece, con una scena di guerra. “Come per l’11 settembre – racconta Alan, di New York – anche in questa tragedia ciò che prevale è la generosità, l’altruismo della gente che si è fatta in quattro per rendere meno doloroso tutto ciò”.

Molti bostoniani, da ieri, hanno aperto le loro case a chi non poteva rientrare nella propria o a chi non poteva lasciare la città come previsto. Ancora ieri, uno degli Starbucks vicini al luogo dell’attentato ha deciso di chiudere presto, allestendo però un banchetto per offrire gratuitamente bevande e panini a chi ne avesse bisogno. Molti arrivano con un mazzo di fiori che depongono vicino alle transenne: per lo più tulipani gialli. Un ragazzo si avvicina. Ha occhiali da sole; dietro le lenti, bende e ferite. É tornato qui appena possibile, per paura di non riuscire a farlo mai più. Invece, nonostante la paura che chiaramente attraversa queste strade, che si legge nel nervosismo dei poliziotti e nei “no comment” di qualche addetto alla maratona, l’imperativo, ancora una volta è di rialzarsi subito e senza indugi.

Chiedo indicazioni per raggiungere alcuni italiani che hanno corso la maratona e che sono ancora qui, il poliziotto mi guarda stancamente poi, d’improvviso, ha una specie di scatto e mi fissa la mano: senza accorgermene l’ho messa in tasca per posare il cellulare. Cristian e Luca hanno passato la notte qui dopo la gara ma, dopo essere rimasti blindati in albergo per qualche ora, dietro ordini precisi della polizia, sono usciti a fare un giro per la città e a mangiare qualcosa. “Noi abbiamo vissuto poco dell’esplosione in senso stretto – racconta Cristian – perchè Luca era già rientrato in albergo e io avevo comunque già superato la linea d’arrivo da cinque minuti: che sembrano pochi ma sono abbastanza per mettersi in salvo”.

Sicuramente le strade silenziose e deserte di ieri sera sono state anche per loro un qualcosa di “surreale” dopo il grande caos seguito all’esplosione. “Io vivo nella strada parallela a quella dove è avvenuto l’attentato – dice Debbie – e ho sentito un fragore che mi ha fatto saltare dalla sedia. Incredibile. Volevo solo uscire di casa ma poi tutti raccomandavano di non muoversi e così sono rimasta dentro. Oggi, però, sono fuori. A respirare”.

 

il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2013