Cultura

Papa Bergoglio e il supercapitalismo finanziario

Sull’elezione di Papa Francesco, uno dei commenti più lucidi è stato quello di Gianfranco Ravasi sul supplemento culturale del Sole24ore di domenica 17 marzo dal titolo Francesco entra nella piazza.

Il nuovo pontificato, afferma Ravasi, seguirà la direzione indicata da un episodio narrato dall’apostolo Paolo: il papa scenderà in piazza, uscirà tra la gente, abbandonando la soglia del tempo e mescolandosi nella rete globale. La grande intuizione di Bergoglio, dinanzi all’onnipotenza del supercapitalismo finanziario, è quella di tornare alle origini della storia della chiesa per superare il groviglio dei “grandi interessi economici che, purtroppo, spesso generano squilibri sociali, miseria, disoccupazione, perfino disperazione, accumuli finanziari capaci solo di alimentare ingiustizie e illusioni”.

Un ritorno con le sue luci e le sue ombre – penso, per esempio, alla ricusazione pregiudiziale dell’aborto e del matrimonio gay – finalizzato alla difesa dell’identità della chiesa contro la forma estrema di capitalismo che stiamo vivendo nella nostra contemporaneità.

La risposta di Papa Francesco è molto diversa da quella delle classi dirigenti europee che hanno deciso, al contrario, di dismettere completamente la loro identità culturale. Una scelta che sottovaluta dati di fatto inequivocabili come la decisione degli Stati Uniti di spostare la difesa antimissilistica dall’Europa al Pacifico che sancisce l’inizio del confronto con le superpotenze del grande oceano, come la Cina e la Corea del Nord. Il destino dell’Europa è ormai irreversibile: un graduale declino a periferia del mondo che ne determina l’esclusione dai nuovi equilibri internazionali.

Come ha reagito e come sta reagendo l’Europa di fronte a questo inarrestabile processo? Proprio nella direzione contraria a quella auspicabile, ossia uniformandosi piattamente al dominio delle oligarchie finanziarie. L’Europa sta distruggendo l’unico valore per il quale rappresenta ancora un punto di riferimento mondiale, il suo grande patrimonio umanistico, difeso ad oltranza da una filosofa statunitense di grande prestigio come Martha Nussbaum nel suo pamphlet ‘Non per profitto, perché la democrazia occidentale ha bisogno dei saperi umanistici e delle loro tradizioni culturali’.

Di fronte a questo scenario internazionale, appare davvero miserrimo lo spettacolo offerto dalla classe dirigente italiana che si riduce a qualche mossa “tattica” come l’elezione dei due volti nuovi – Laura Boldrini e Pietro Grasso – alle Presidenze delle Camere, senza una visione strategica di largo respiro.

La classe dirigente del centrosinistra, invece, dovrebbe impegnarsi per rispondere alle richieste ineludibili e incalzanti emerse dalle recenti elezioni politiche; dovrebbe essere in grado di prevedere provvedimenti realistici di fronte al problema drammatico del lavoro e dello sviluppo; dovrebbe proporre soluzioni immediate per far fronte alla devastazione ormai progressiva della scuola e dell’Università pubblica.

Vi sono dati di fatto inoppugnabili che devono far riflettere: prima dell’applicazione della Riforma universitaria, ad esempio, esistevano in Italia più di trenta Dipartimenti di Filosofia, mentre oggi ne sono rimasti solo quattro.

Come giudicare questo processo? Dal mio punto di vista, la marginalizzazione ed estinzione della filosofia corrisponde, in maniera speculare, a un deficit di democrazia. Non solo, questa progressiva ghettizzazione della cultura – che va nella direzione contraria a quella intrapresa dalla chiesa – volta le spalle alla propria identità originaria, unica ancora di salvezza per reagire al declino dell’Europa.

Su questi problemi “reali” vanno commisurate le scelte della classe dirigente italiana, non su inutili tatticismi “manieristici” che non hanno più alcuna incidenza sull’opinione pubblica del paese.