Misfatto

Chi vince l’oscar delle balle elettorali?

Naturalmente scalare il Cervino a mani nude, o lanciarsi da un jet con un paracadute di mutande, o attraversare a nuoto l’Atlantico senza pinne, sono imprese alla portata di tutti. Più difficile, come sport estremo, è credere alle promesse elettorali. Una pratica che lascia immancabilmente sul campo morti e feriti, delusioni feroci e l’intimo fastidio che ci fa dire: ci ho creduto, che fesso! Come sempre quando si ha a che fare con dei feticci – teste impagliate della Guinea, boomerang d’osso aborigeni o promesse elettorali italiane – scatta la sindrome del collezionismo. Dal Matteo Salvini che tuonava: “Lega, mai più con Berlusconi!” (luglio 2012), fino al Mario Monti di “Non mi presento alle elezioni” (settembre 2012), passando magari per l’Angelino Alfano del “Faremo le primarie, nessuno stop” (dicembre 2012), il problema è quello della raccolta infinita, come dire che l’album non lo completeremo mai.

Perché, come in ogni collezione che si rispetti, anche per quella delle promesse elettorali esiste il problema dei doppioni. Per esempio sulle primarie del Pdl, per dirne una, ci sono infinite varianti: figurine di merda di fronte, di profilo, di schiena, eccetera. Buone da scambiare con altri collezionisti, insomma, ti do un Alfano che dice una cazzata in cambio di un Maroni che ne dice due. Poi – spero capiate il dramma di noi collezionisti – c’è anche un problema di scadenza. Sì, perché le promesse scadono proprio come lo yogurt, ma nessuno scrive sulla confezione “da consumarsi entro…”. Per dire: “Non faremo campagna elettorale contro Monti”, prometteva Silvio Berlusconi in dicembre, nemmeno un mese prima di dare del “mascalzone” al professore. Ma un mese è già parecchio. C’è anche chi scade in poche ore, come la rara figurina del Maroni stratega: “Facciamo l’election day in aprile!”, detto il primo novembre 2012, cioè due giorni prima della decisione di votare a febbraio. Una specie di cazzata istantanea, quindi, solubile e da bere subito, prima che vada a male. Ma fin qui, mi rendo conto, parliamo di piccole manie, di archivisti della demagogia. Un mio vicino di casa ricorda sempre la stoccata berlusconiana del 2008, quell’“Aboliremo il bollo auto” che ancora gli provoca acidità di stomaco ogni volta che lo paga. Altri, più ecologisti, ricordano il meraviglioso Berlusconi che si impegnava a piantare 100.000 alberi (era il 2010), o quello che “Sconfiggeremo il cancro”, o altre promesse dimenticate e ingiallite dall’oblio come le figurine Liebig di inizio ’900. Siamo all’elencazione, al ricordo, alla rimembranza: promesse assurde e impossibili come un cameo dei tempi andati, piccole madeleines proustiane del nostro scontento.

Più difficile (ci vorrebbe un filosofo, un poeta, il Roland Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso), è capire come anche la promessa più assurda, folle, spericolata e inconcepibile attecchisca in fondo anche tra gli scettici. Ti amerò per sempre. Non ti tradirò mai. Ti renderò in contanti i soldi dell’Imu, abbasserò l’Irpef. Vedrai, sarà sempre come il primo giorno. Non ci crede nessuno, naturalmente. Eppure c’è un piccolo demone in ogni cuore che ci pungola, che ci dà di gomito, che ci sussurra: “Ma metti che…”. Un minuscolo retrovirus, un globulo stronzo che rode piano piano. Che ci rende in qualche modo complici di chi fa promesse strampalate. Come per le truffe, bisogna essere in due: truffatore e truffato. Anzi in tre: truffatore, truffato e chi tiene il conto. Che è sempre in perdita.

Il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2013