Politica

Elezioni: il ruolo di magistrati, comici e giornalisti

Uno degli ultimi buoni maestri di quest’Italia incanaglita – Paolo Sylos Labini – non perdeva occasione per stigmatizzare la “resistibile ascesa” di Silvio Berlusconi spiegando che “ce l’eravamo voluta noi”, visto che la legge inibisce espressamente l’elettorato passivo (essere eletti) ai titolari di concessioni pubbliche; quali le frequenze televisive. Norma che il Caimano si scrollò di dosso con spallucce e battutacce (“difatti Felice Gonfalonieri non è eleggibile…”), anche perché i presunti avversari politici fecero a gara nel dimenticarla.

Perché? Per la furberia maldestra da polli, cresciuti in batteria negli allevamenti di partito, che credevano di abbindolare con le loro manfrine una belva sanguinaria delle lande brianzole. I D’Alema, quando andavano ai cancelli di Mediaset sproloquiando di “patrimoni nazionali da preservare” e inciuciavano alla grande, e i Veltroni che negoziavano il duopolio televisivo Raiset in cambio di un piatto di lenticchie (la Terza Rete e un po’ di pubblicità sulle riviste dei miglioristi PCI. O forse qualcos’altro ancora?).

Sarebbe bastato che il comune sentire nazionale avesse incamerato un’adeguata dose di normalissima decenza e non saremmo qui a contemplare le macerie fumiganti di un Paese che si presumeva civile.

Decenza, la virtù perduta. Per questo vorrei aggiungere una considerazione di fine anno, che irriterà certamente gli amici che mi leggono e con cui discuto in questo spazio: se bisognerebbe rispettare con il massimo rigore le leggi dello Stato (tipo quella che avrebbe vietato a Berlusconi vent’anni di devastazioni della morale pubblica, prima ancora della politica), nella stessa logica – seppure con ben minore cogenza – andrebbe applicata una norma sociale secondo cui è di cattivo gusto e di pessimo esempio che si candidino personaggi preposti, sino a un momento prima, a svolgere funzioni di contropotere e/o controllo nella vita pubblica.

Più chiaramente: provo un senso di profondo scoramento quando avviene il salto in politica di tre categorie professionali con altissima funzione sociale. Ossia, i magistrati, i comici e i giornalisti.
Ovviamente, come liberale, sono per “il vietato vietare”; quindi riluttante davanti a qualsivoglia divieto imposto per via normativa. Semplicemente gradirei un maggiore livello di autodisciplina. Soprattutto quando si detiene un notevole potere incontrollato di influenzamento nei riguardi della pubblica opinione.

Difatti il trio comici – magistrati – giornalisti rientra, ognuno a suo modo, nella fattispecie che Beniamino Franklin definiva “i cani da guardia dei cittadini”; vigili in primo luogo nei confronti delle istituzioni. Sicché la loro candidatura, che nasce non di rado da narcisismo personale e strumentalizzazione di un patrimonio di visibilità da parte degli arruolatori, induce immediati sospetti che il dichiarato ruolo di guardiani fosse mitigato da un certo grado di collusività. E questo non è bello per loro e per le istituzioni, dove vanno a occupare un seggio sbandierando indipendenze che smentiscono proprio con la loro nuova frequentazione.

Del resto questi personaggi, le cui competenze si indirizzano a campi ben diversi rispetto al governo della cosa pubblica, determinano un ulteriore effetto negativo: puntellano quella politica star-system in cui gli elettori vengono sviliti a spettatori, per di più obnubilati da rapporti feticistici con il personaggio in cui si riconoscono ciecamente. E non è certo la strada del fideismo acritico il miglior modo per contrastare il tecnicismo fasullo dei professori al servizio delle banche.

Pertanto sarebbe molto meglio che ognuno ritornasse a svolgere il proprio mestiere: i giornalisti a fornire chiavi di lettura degli accadimenti, i comici a smascherare le nudità del re, i magistrati a fare i magistrati. Non ci sono bastati i Di Pietro, i Guzzanti o i Farina (questi ultimi nella duplice veste di giornalisti/comici)? Purtroppo segni indelebili ci dicono che i lasciti velenosi dei decenni passati sono ancora più che vivi.
Il primo di essi si chiama divismo in politica. Turlupinatura della democrazia.